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 2019  febbraio 14 Giovedì calendario

Intervista a Luca Serianni sulla lingua italiana

Il più buono ha twittato "aridatece petaloso". Dopo l’ironia che ha travolto la Crusca per aver dato l’impressione di sdoganare l’espressione "esci il cane" ora è la volta del neologismo "Ferragnez". L’invenzione, che consacra il matrimonio anche linguistico della coppia più di tendenza del momento, Chiara Ferragni e Fedez, è stata inclusa nel libro della Treccani dedicato alle nuove parole del 2018. Inaspettatamente il web, lo stesso che ha innalzato la fashion blogger e il rapper a miti dei nostri giorni, è insorto. Curioso fenomeno. Eppure per Luca Serianni, accademico della Crusca e dei Lincei, questo è «il momento giusto per creare nel nostro paese il primo Museo della Lingua Italiana». Ieri l’illustre linguista ha lanciato il progetto nella sede romana della Società Dante Alighieri, insieme ad altri colleghi, tra cui Claudio Marazzini, Lucilla Pizzoli, Giuseppe Antonelli, Michele Cortelazzo e Marco Mancini.
Professore come spiega le polemiche? Da dove arriva questa smania normativa diffusa?
«Il bisogno di regole è sempre esistito ma ora con i social si manifesta con più evidenza. Le persone comuni hanno bisogno di norme che valgano sempre, è un’esigenza istintiva».
I neologismi proposti dalla Treccani, tra cui i discutibili "Ferragnez" "orgasmometro" e "viadotticidio" sono diventati in Rete oggetto di scherno.
«Vediamo se reggeranno. La gran parte dei girini viene divorata dopo la nascita».
Qualche giorno fa è finita sotto accusa l’espressione "esci il cane", sdoganata dalla Crusca.
«Non è stata sdoganata. Il collega Vittorio Coletti ha voluto solo mostrare che quell’uso esiste in alcune parti d’Italia, soprattutto nel meridione. La sua era un’analisi socio-linguistica del fenomeno».
Ma così non rischiate di smontare quelle poche certezze grammaticali che ci rimangono?
«La linguistica professionale tende a spiegare più che a condannare, registra che cosa c’è dietro un uso deviante. È vero però che come esiste una temperatura percepita, esiste anche una norma linguistica percepita. Se viene infranta, la gente reagisce».
Arriveremo ad accettare anche il dilagante uso di "piuttosto che" con valore disgiuntivo?
«Se dovesse affermarsi non ci sarebbe niente da fare. Come diceva già nel ‘700 Melchiorre Cesarotti, il più grande linguista italiano, "l’uso fa legge qualunque siasi"».
La lingua italiana è in pericolo?
«Non credo ci sia un vero pericolo, ma la percezione di un pericolo. Per questo è il momento giusto per creare un museo della lingua italiana, perché servirebbe ad incanalare sul terreno linguistico spinte nazionalistiche per altri aspetti abbastanza discutibili».
Meglio dirottarle dalla politica alla cultura?
«(Sorride). Qualunque cosa se ne pensi, la sensibilità ipernormativa delle persone sottolinea un emergente attaccamento alla nostra lingua. Qualche anno fa il tifo calcistico e le abitudini alimentari venivano percepiti come gli unici elementi di italianità condivisa, ora anche la lingua. Forse dipende dal fatto che l’inglese si va diffondendo sempre di più...».
Non può trattarsi di un modo ulteriore per dire "prima gli italiani"?
«È un altro aspetto del fenomeno, ma direi che in questo caso si può sfruttare positivamente, convogliandolo nella direzione giusta».
Come è possibile musealizzare una lingua viva?
«Immaginando un museo non museale, che coinvolga i visitatori. È passato il tempo delle vecchie serie di teche con la didascalia cartacea. La telematica in questi ultimi anni si è molto evoluta e dunque va valorizzata».
Nel recente libro "Il museo della lingua italiana" Giuseppe Antonelli suggerisce una mappa ipotetica di museo a cui ispirarsi.
«Antonelli era tra gli organizzatori della mostra Dove il sì suona tenuta agli Uffizi a Firenze nel 2003, dalla quale è partita per poi evolversi la nostra idea di museo».
Sarà un museo interattivo?
«Certo, ma non mancheranno gli oggetti fisici. Penso a copie anastatiche di documenti importanti che rispetto agli originali avrebbero il vantaggio di poter essere sfogliate, toccate.
Naturalmente non potranno mancare codici danteschi riprodotti, così come le copie dell’edizione definitiva dei Promessi Sposi, del Placito capuano, primo documento a cui si fa risalire il volgare o del famoso Indovinello veronese ».
Dove realizzarlo?
«La mia idea è quella di un museo diffuso. Una sede potrebbe essere Firenze, capitale della lingua e sede della Crusca, un’altra Roma, dove c’è la Società Dante Alighieri».
Nel libro scritto con Lucilla Pizzoli "Storia illustrata della lingua italiana" fate l’esempio di altri musei del genere.
«Ne esistono sessantacinque nelle varie lingue. Uno in Norvegia, creato nel lontano 1898. Altri dedicati a lingue minori, dal basco all’esperanto. L’eccellente museo del portoghese di San Paolo purtroppo è stato distrutto da un incendio quattro anni fa».
Come spiega il fatto che l’italiano sia la quarta lingua culturale più studiata al mondo?
«Perché rimanda ancora a un’immagine positiva, di allegria, di persone che amano la vita.
Un’immagine che all’estero ancora regge, nonostante non corrisponda più alla situazione di oggi».
Nel museo entreranno anche i neologismi?
«Non tutti resistono nel tempo.
Degli spermatozoi alla fine è solo uno quello che conta (ride)».