la Repubblica, 14 febbraio 2019
Le Maldive affogano nei debiti con la Cina
I paradisi fiscali ai tropici di solito nuotano nei soldi, per quanto di altri. Alle Maldive, paese inserito nella black list dell’Agenzia delle Entrate anche per il 2019, si rischia paradossalmente – di affogare nei debiti. L’arcipelago composto da oltre 1200 isole che si estende per una lunghezza longitudinale di 850 chilometri e una zona commerciale esclusiva rivendicata di 850mila chilometri quadrati (tre volte l’Italia), da quattro anni a questa parte non è soltanto meta per vacanze da cartolina illustrata.
Dal 2014, da quando il capo del governo cinese Xi Jinping è stato in visita ufficiale nella capitale Male, sulle Maldive è si è riversata una pioggia di miliardi. Ma non per essere “parcheggiati” in qualche conto corrente al riparo dal fisco: si tratta di prestiti arrivati da Pechino e investimenti dei grandi gruppi cinesi, destinati a cambiare il volto dell’arcipelago. Il progetto più significativo, non a caso, è il Maldive- China Friendship Bridge: opera faraonica da 210 milioni di dollari, è il ponte lungo due chilometri che collega la capitale con la vicina Hulhumale, isola artificiale costruita sulla barriera corallina dove sorge l’aeroporto internazionale. E dove il governo del piccolo stato a sud della penisola indiana vorrebbe trasferite più di 200mila abitanti, con un progetto immobiliare da 11mila appartamenti per lo più in grattacieli. Ma sono solo due esempi: oltre a progetti turistici, dalla Cina si sono offerti per rifare tutte le linee elettriche (per 180 milioni di dollari) e raddoppiare la capacità dell’aeroporto (altri 420 milioni).
Ma nulla è gratis, a questo mondo. E ora le Maldive si trovano a fare i conti con i soldi da restituire a Pechino. Che non sono pochi: le cifre ufficiali, tra i debiti contratti direttamente e garanzie governative, parlano di 1,5 miliardi di dollari. Secondo il Financial Times, che ha parlato con un consigliere del presidente della Repubblica, alcune garanzie finora non dichiarate, potrebbero portare il conto finale a un totale di 3 miliardi. Il che porterebbe il paese sull’orlo del dissesto, visto che il Pil delle Maldive (400mila abitanti con il turismo come fonte principale di entrata) nel 2017 è stato pari a 4,9 miliardi.
Ma non si tratta solo di finanze statali e investimenti azzardati. Ci sono anche risvolti di carattere geopolitico, con possibili ripercussioni giudiziarie. Le Maldive, per la loro posizione strategica, fanno parte della Belt and Road Iniziative, la rediviva Via della Seta rilanciata da Pechino, per legare il commercio del sud est asiatico all’Europa e al resto del mondo: le rotte principali dei cargo e del trasporto di materie prime, petrolio in primis, passano a poca distanza dall’arcipelago.
Per legare i paesi dell’area e convincerli a far parte del progetto, Pechino è stata prodiga di soldi e infrastrutture. Ma ora che la Cina si presenta all’incasso, in molti si stanno rendendo conto che il prezzo da pagare non sarà indolore: di recente, il primo ministro della Malesia ha dichiarato che il suo paese «rischia di impoverirsi» se sarà dato il via libera al progetto ferroviario da 20 miliardi dove dovrebbero passare le merci cinesi. E proteste analoghe stanno arrivando da Pakistan, Sri Lanka e Myanmar.
Nel caso delle Maldive, bisogna aggiungere che il caso è scoppiato dopo le elezioni e la vittoria a sorpresa del candidato filo-indiano: oltre ad aver cominciato a prendere le distanza da Pechino, ha scoperto che i costi delle grandi opere sarebbero un po’ troppo gonfiati. E che qualcosa è rimasto appiccicato alle dita dei funzionari governativi. Tutto il mondo è paese, anche lungo la Via della Seta.