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 2019  febbraio 14 Giovedì calendario

Biografia di Matt Groening

Matt Groening (Matthew Abraham G.), nato a Portland (Oregon, Stati Uniti) il 15 febbraio 1954 (65 anni). Fumettista. Disegnatore. Animatore. Produttore. Ideatore della serie a fumetti Life in Hell (1977-2012) e delle serie animate televisive I Simpson (in corso, dal 1989), Futurama (1999-2003; 2008-2013) e Disincanto (in corso, dal 2018). «Mi è sempre piaciuto tantissimo inventare nuovi mondi, come fanno i piccoli» • Terzo dei cinque figli di una famiglia di anabattisti mennoniti di origine europea, nacque dopo Mark e Patty e prima di Lisa e Maggie. «Sono uno dei tanti americani-macedonia, uscito da una covata di cinque figli: madre norvegese, insegnante, Marge Ruth, padre tedesco, Homer, omonimo del capofamiglia dei Simpson e del mio primogenito. Lui stesso fumettista, oltre che pubblicitario e regista, ha avuto la buona idea di incoraggiarmi sulla strada insidiosa della matita. Fin da piccino, mi sono dato al vizio inguaribile di disegnare dappertutto, ai margini dei quaderni alle elementari, sui giornaletti di classe alle medie, sempre lasciando sconcertati i compagni perbene» (a Mario Serenellini). Insieme al padre, «ci inventavamo storie. […] Ne abbiamo inventata una che si chiamava La storia, e i protagonisti eravamo io e mia sorella Lisa: andavamo a spasso nel bosco, incontravamo una serie di animali e li aiutavamo. L’ho raccontata a mia sorella Lisa, e a sua volta lei l’ha raccontata a nostra sorella Maggie. Poi nel 1964 mio padre ci ha filmati mentre recitavamo le nostre parti, e mia sorella faceva la narratrice. Si può vedere ancora oggi su YouTube: ci sono io coi capelli a spazzola ancora più corti di quelli di Bart» (a Luca Celada). «A 14 anni si imbatte in un disco che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella sua formazione: Freak Out!, il primo album di Frank Zappa e del suo gruppo The Mothers of Invention. Quell’album, uscito un paio di anni prima, prende in giro con ironia tagliente e spudorata la società americana, e Matt Groening sente che quella sarà la sua strada» (Nicolas Ballario). «Grazie al lavoro del padre, […] in casa non mancavano mai New Yorker, Esquire e Punch, riviste alternative che Groening accompagnava con la lettura di Zio Paperone, Peanuts e gli altri fumetti del fratello maggiore. […] Con i suoi amici fondò un club che si ritrovava per leggere fumetti e riviste, e disegnare. Qui, Matt disegnò Joe, una versione deformata di Charlie Brown: labbro sporgente, nasone e occhi enormi posti sullo stesso lato della faccia; a Matt e ai suoi amici quest’ultimo dettaglio faceva molto ridere. Ad affascinarlo, in particolare, era la serie di Ronald Searle St. Trinian’s School, ambientata in un collegio femminile dove gli insegnanti sono aguzzini sadici e le alunne delinquenti in gonnella. […] Al college, l’Evergreen State College, un istituto fondato l’anno prima dell’immatricolazione di Groening che vantava un’impostazione progressista fatta di lezioni libere e assenza di voti, diventò l’editor del giornale del campus, il Cooper Point Journal, e conobbe Charles Burns, Jim Chupa e Lynda Barry. Con quest’ultima strinse una profonda amicizia. […] Barry lo portò a scoprire un nuovo modo di intendere il fumetto alternativo: metteva su carta la sua vita, i suoi lavori erano personali e divertenti ed erano un approccio alternativo a quello di Robert Crumb e dei “fumettisti della stessa risma, che combattevano battaglie diverse”, secondo Groening» (Andrea Fiamma). «Mi sono trasferito a Los Angeles dalla natia Portland, nell’Oregon, dopo la laurea [in Filosofia – ndr], a ventitré anni: sognavo di diventare uno scrittore famoso. Ma, anziché sfondare sulle riviste con articoli geniali, ho dovuto subire una sequela d’ingaggi riprovevoli, tipo: comparsa nel film When Every Day Was the Fourth of July, lavapiatti in un pensionato, autista e “negro” d’un regista rimbambito di ottantotto anni ansioso d’immortalarsi in un’autobiografia. Mentre stavo al volante, il vecchiaccio mi raccontava la sua vita per filo e per segno, senza dimenticare una virgola. Non c’è voluto molto perché Los Angeles e i suoi lavoretti diventassero il mio inferno. Life in Hell effettivamente è nato così: una valvola di sfogo a strisce, un modo di scherzare. […] La mia intenzione era di farne un Peanuts postpunk, e infatti attirò subito il milieu underground di Los Angeles. I personaggi principali sono Binky, strambo coniglio nevrotico dai denti finti [affiancato dalla coniglietta Sheba – ndr], Akbar e Jeff, coppietta di gay, forse gemelli, comunque identici, osteggiata dal gretto vicinato, e Bongo, coniglietto con un solo orecchio, perseguitato da incomprensioni e sadismo di insegnanti, genitori e terapeuta. È una critica acre e disillusa dell’American way of life. […] All’epoca, le strisce di Life in Hell, le fotocopiavo una per una e le vendevo ai passanti. Racimolavo di che vivere come commesso al rock club “Whisky a Go Go” e al “Liquorice Pizza”, negozio di dischi che calamitava rockstar. La specialità del locale, a dispetto del nome, non era la pizza alla liquirizia, ma la vendita di vinili, accompagnata sotto banco da elaborati kit per spinelli o cocaina. Un traffico fitto d’effetti imprevisti, come appunto la richiesta finale da parte dei fan più appagati di una pizza alla liquirizia». «Un editor di Wet, l’eclettico magazine fondato da Leonard Koren, lo volle a bordo della rivista. Da lì passò al Los Angeles Reader, che nel 1980 assunse Groening nel proprio staff come redattore, fumettista e critico musicale. […] Gary Panter fu un altro fumettista che Matt Groening prese a modello, facendo sue le idee del Rozz Tox Manifesto, una teoria dell’arte postmarxiana che rifiutava l’idea dell’artista che lavorava contro il sistema: al contrario, gli artisti erano incoraggiati a provocare un cambiamento agendo dall’interno della società capitalistica. Con i suoi fumetti, diceva Groening, “volevo solo offrire un’alternativa al pubblico e mostrare loro che esiste qualcos’altro oltre alla spazzatura generalista che viene spacciata come l’unica cosa possibile. […] Quando mi trasferii a Los Angeles nel 1977 e feci amicizia con Gary Panter, ci piaceva sederci sulla Melrose, dividerci hamburger da Astro Burger e pianificare la nostra invasione dei media. La nostra idea era che, invece che considerarci troppo bravi o raffinati o esoterici, dovevano muoverci per cercare di far passare le nostre idee”. […] Life in Hell sarebbe però rimasto uno dei tanti compiti del Groening giornalista se non fosse stato per Deborah Caplan, che del Reader era l’addetta alle vendite. Caplan divenne prima la nuova fidanzata dell’autore (in seguito moglie) […] e poi la sua manager, occupandosi di mettere ordine nella gestione bohémien degli affari di Matt Groening. “Gli uscivano i quarti di dollaro dalle tasche, li aveva sparsi per tutto il pavimento”, ricorda Caplan. “Teneva assegni non incassati sotto pile di vecchi giornali”. Tra la creatività di Groening e l’operosità di Caplan, i due riuscirono a creare una piccola industria a tema Life in Hell comprendente raccolte, calendari e oggettistica varia, che fecero intuire al fumettista le potenzialità della commercializzazione. […] Sempre grazie a una donna Groening passò dal fumetto alla televisione. La scenografa Polly Platt, che aveva ricevuto una nomination all’Oscar per Voglia di tenerezza e voleva ringraziare il regista James L. Brooks per la collaborazione, comprò da Caplan un originale di Life in Hell del 1982 intitolato The Los Angeles Way of Death, in cui vengono mostrati nove modi per morire nella città degli angeli, gli ultimi due dei quali sono il successo e il fallimento. “Il mio consiglio a Jim: pensavo fosse carino fare uno special tv su quei personaggi”, ricorda Platt. La scenografa acquistò un paio di disegni anche per il braccio destro di Brooks, Richard Sakai. Questi li mostrò poi a Ken Estin, produttore del Tracey Ulmann Show, che dichiarò di essere stato lui a suggerire che fosse Groening a realizzare le brevi animazioni che servivano da intermezzo tra uno sketch e l’altro. […] E quindi eccolo lì, Matt Groening, a fare anticamera sperando che Brooks approvasse l’idea di un adattamento di Life in Hell» (Fiamma). «Temendo di perdere i diritti della pubblicazione e dubbioso sull’esito del tele-trapianto, che avrebbe potuto affossarmi fumetti e carriera, buttai giù in un quarto d’ora, mentre facevo anticamera dal produttore, una nuova fauna domestica, adattando di corsa le fisionomie dei miei conigli, e mantenendone però la natura bislacca»: nacquero così i Simpson. «Per i nomi dei principali membri della famiglia si ispirò alla propria vita: Homer e Margaret (ossia Marge) sono i suoi veri genitori, mentre le sue sorelle si chiamano Lisa e, di nuovo, Margaret (Maggie). “Bart” è invece un anagramma di brat (monello), ma per ammissione del suo creatore è sostanzialmente l’alter ego di Groening. Lo stesso stratagemma fu poi adottato per altri personaggi, i cui nomi derivano da quelli delle vie della città natale dell’autore (tra questi ci sono Flanders e Lovejoy). Non volle invece dare il nome del proprio nonno al padre di Homer, e chiese agli sceneggiatori di inventarne uno per conto loro. Ironia della sorte, scelsero comunque, senza saperlo, il nome del nonno di Groening: Abraham» (Max Borg). «Poi gli mise il cognome di un personaggio secondario di Life in Hell, Mr. Simpson. […] Jay Kennedy, editor-in-chief della King Features Syndicate, […] gli aveva suggerito di puntare su personaggi umani: […] a mo’ di omaggio, Groening scelse “Jay” come secondo nome di Homer» (Fiamma). «Gli schizzi, realizzati in fretta e furia, furono mandati agli studi della Fox, nella speranza che gli animatori potessero sistemarli. Al contrario, la scelta fu quella di ricalcare fedelmente quanto disegnato da Matt, col risulto di uno stile grezzo e grottesco, che però si dimostrò efficace. L’ultimo tocco fu la colorazione giallastra dei personaggi. Come dichiarato più avanti dallo sceneggiatore Matt Selman, l’idea era quella di giocare un tiro mancino agli spettatori: “Matt sperava che il pubblico si alzasse dalla sedia, chiedendosi perché fossero gialli: […] voleva convincere il pubblico che il televisore fosse guasto”. Il successo è praticamente immediato. Nonostante il Tracey Ullman Show abbia vita breve (la Fox lo cancellerà dopo la quarta stagione), la famiglia creata da Groening è ormai conosciuta in tutti gli Stati Uniti. Una fama, quella dei Simpson, che non passa certo inosservata ai piani alti della rete, che decide di dare un posto tutto loro nel proprio palinsesto. L’idea non fu accolta benissimo da Groening. Passare dal formato delle clip a quello di una storia di trenta minuti sembrava un ostacolo difficile da sormontare, motivo per cui l’autore fece inizialmente qualche resistenza, salvo poi farsi convincere di fronte alla possibilità di mantenere il controllo creativo dei personaggi. In fondo, il suo scopo dichiarato era sempre stato creare uno spettacolo che offrisse al pubblico un’alternativa a quella lui definiva “la spazzatura tradizionale” che circolava nell’etere degli States. Il 17 dicembre 1989 va in onda il primo episodio di quella che sarà una delle serie più longeve della storia, trasmesso in Italia col titolo Un Natale da cani. E subito i Simpson si fecero riconoscere, ricevendo due candidature agli Emmy e creando qualche grattacapo ai censori della Fox. […] Non ci volle molto perché lo show, tra la sorpresa di tutti e dello stesso Groening per primo, si trasformasse in un fenomeno globale. La serie riscuoteva successo per la sua satira sottile e crudele della vita dell’uomo medio americano, senza curarsi troppo dell’essere trasmessa da uno dei network più conservatori al mondo» (Federico Galdi). «Il cartoon ottiene un successo enorme, diventando un cult nel giro di pochi mesi, e nel 1990 persino il presidente Bush si occupa dei Simpson, additandoli come l’apoteosi del cattivo esempio. Nel dicembre dello stesso anno il Time mette in copertina Bart ed esce The Simpsons Sing the Blues, un disco dedicato alla serie nel quale compaiono moltissime star (persino Michael Jackson incide una canzone per l’occasione). Il successo cresce a dismisura, e diventa la serie con più guest star della storia: da Sting a Paul McCartney, da Elton John a Liz Taylor, da Meryl Streep a Jay Leno. Chiunque presta la voce ai Simpson per interpretare se stesso nella serie» (Ballario). «Negli anni successivi, Groening iniziò a concepire un nuovo progetto. Per diversi anni si dedicò alla lettura di libri e sceneggiature di fantascienza, arrivando a realizzare, nel 1999, il suo secondo grande successo televisivo. Stiamo parlando di Futurama. Il genio creativo di Groening, con la collaborazione di David X. Cohen, riuscì a creare un’altra grandiosa serie, sfruttando a pieno tutta la sua immaginazione e la sua vena satirica. Le avventure di Fry e della “ciurmaglia” della Planet Express andarono in onda a partire dal 28 marzo del 1999. […] Groening non nasconderà mai il proprio affetto per questa serie. Se i Simpson, nel corso degli anni, erano diventati sempre meno qualcosa di suo, entrando a fondo nel meccanismo del network, Futurama rappresenterà per il suo creatore qualcosa di fortemente voluto e per cui aveva combattuto strenuamente» (Galdi). Se la fortuna de I Simpson continua ancora oggi, dopo 30 stagioni (652 episodi, destinati a diventare 700 con la realizzazione delle prossime due serie, già programmate dalla Fox) e un lungometraggio anch’esso di grande successo (I Simpson. Il film, 2007), mentre Futurama è stato sospeso a tempo indeterminato dopo sette stagioni (le prime quattro delle quali trasmesse dalla Fox, le ultime tre da Comedy Central), nell’agosto 2018 ha debuttato su Netflix la nuova serie animata ideata da Groening, Disincanto. «La cornice è quella del fatiscente regno medievale di Dreamland. Il quadro ha tre protagonisti: la principessa ubriacona Bean, il suo demone personale Luci, un esuberante Elfo. Il pittore è Matt Groening. […] Come mai questa svolta? […] “Ho scelto il fantasy perché non è solo divertimento, ma ti permette di spingere la realtà al suo estremo, ti consente di creare personaggi incasinati e problematici”. Cosa l’ha ispirata? “È una combinazione di tutte quelle atmosfere fantasy che piacciono a me e a chi lavora con me, dai cartoni animati fiabeschi degli anni ’30 alle Fiabe italiane di Italo Calvino, un autore che mi ha colpito subito, la prima volta che l’ho letto. Da lì ho avuto l’idea che le favole non devono per forza finire nel modo in cui ti aspetteresti che finiscano le fiabe classiche. […] Intanto, parlando di una principessa ubriaca volevamo subito far capire che non è un film Disney, ma raccontare un’anima piuttosto buia e speriamo divertente… È una donna giovane con grandi privilegi che cerca di essere normale e sfuggire a un padre prepotente e rabbioso. È influenzata dal suo demone personale, Luci, che è grande fonte di humor e pessimi consigli. L’elfo, dannatamente e segretamente innamorato di lei, è la buona coscienza. Elfo e demone sono l’ago della bilancia tra due pulsioni opposte”» (Renato Franco) • «Il 19 marzo 2000 è andato in onda un episodio dei Simpson dal titolo Bart to the Future. […] In pratica, sulla strada di ritorno da un disastroso picnic, la famiglia si imbatte in un casinò gestito da nativi americani. Uno dei pellerossa dello staff sorprende Bart fra il pubblico di uno spettacolo vietato ai minori. Lo porta quindi nell’ufficio del Grande Capo, che per dargli una strigliata gli mostra il futuro che potrebbe aspettarlo se continuerà a fare il monello. Fra le immagini offuscate della visione, Bart si vede a 40 anni fallito, alcolizzato e scapolo, costretto a dividere una catapecchia con Ralph (il figlio del commissario Winchester). La sorella Lisa invece è diventata presidente degli Stati Uniti, chiamata a risollevare le sorti della nazione dopo un disastroso mandato di Donald Trump. E così, 16 anni prima che potesse succedere l’impensabile, un Groening profetico ci aveva già scherzato sopra» (Claudio Biazzetti). «Continuo a essere sorpreso del fatto che sia riuscito a ottenere questo mandato. Previsione o non previsione, mi creda, sono stato preso del tutto in contropiede dal corso degli eventi. […] Faccio sempre più fatica a trarre aspetti comici da quello che sta avvenendo. […] Trump ha rovinato e distrutto la storia americana» (a Martin Scholz) • Due figli, Homer e Abe (nomi del padre e del nonno di Groening, nonché del padre e del nonno della famiglia Simpson), dalla prima moglie, la sua ex manager Deborah Caplan; altri cinque figli dalla seconda moglie, l’artista argentina Agustina Picasso, di cui Groening ha anche adottato la figlia di primo letto Camila • Appassionato di musica, milita nel gruppo rock Rock Bottom Remainders, di cui fanno parte anche scrittori quali Stephen King, Scott Turow, Maya Angelou, James McBride, Amy Tan e Dave Barry. «“Di solito ci esibiamo nei festival del libro organizzati ovunque negli Stati Uniti. In realtà, abbiamo avuto più volte l’intenzione di sciogliere la band: solo che nessuno poteva sopportare di lasciarla davvero. Dunque, torneremo sempre, anche se siamo proprio la peggiore band del mondo”. Suonate così male? “Per quanto riguarda la musica, facciamo proprio schifo. Ma negli intermezzi siamo molto divertenti. Se lei riesce a sopportare di ascoltarsi tutte le nostre cover, si divertirà molto alle battute tra una canzone e l’altra”» (Scholz) • «Ha disegnato Homer, come tutte le sue creature, con gli occhi a palla e la mascella superiore sporgente. […] “Ho escogitato questo stile di disegno quando avevo dodici anni. Perché? Perché la gente con gli occhi a palla e la mascella superiore sporgente mi faceva ridere. Da allora ho mantenuto questo stile. Davvero, non riesco più a disegnare diversamente. Beh, non è del tutto vero. In Disincanto c’è qualche orco con la mascella inferiore sporgente. Perciò, qualche piccola variazione l’ho introdotta. Ma ho fatto molta fatica a disegnare figure con la mascella inferiore anziché quella superiore sporgente: mi sembrava in qualche modo innaturale e falso”» (Scholz). «È la domanda che le fanno tutti: I Simpson avranno una fine? Ha già pensato all’ultimo episodio? “Io e tutto il mio gruppo di lavoro amiamo fare I Simpson: tutti noi abbiamo costruito la nostra carriera su un solo show, e lo scambio creativo che c’è tra di noi è andato sempre bene. Se I Simpson finiranno, non sarà per causa mia”» (Franco) • «Gialli e con gli occhi grandi, il padre Homer, pigro e teledipendente, la madre Marge, affettuosa ma un po’ pedante, con i tre figli, il discolo Bart, l’intelligente Lisa e la piccola Maggie, sono i protagonisti di un ritratto articolato e corrosivo dell’American way of life, tanto che il critico Bill Zehme li ha definiti gli unici personaggi reali della tv. I Simpson si affermano negli anni ’90 quando, grazie anche a loro, si verifica, dopo il dominio dei generi fantastici nipponici e disneyani, un’inversione di tendenza nel disegno animato seriale, con un recupero della realtà quotidiana sotto una lente grottesca e iperrealista. Attorno al microcosmo di Springfield si incentrano gli episodi, con livelli di lettura che si stratificano in lungo e in largo. In ogni puntata è possibile seguire, oltre alla storia, la dimensione registica, gli elementi di satira, il lato meta-televisivo, o scoprire le continue citazioni. […] Ormai da anni sono materia di studio nelle università; si sono moltiplicate tesi di laurea e saggi. […] Ma […] I Simpson, studiati e riveriti, non hanno perso quel gusto della provocazione che ha fatto scuola nel mondo dell’animazione cosiddetta “adulta”, dando vita a Futurama, South Park e I Griffin» (Mauro Ravarino). «Homer è la più perfetta incarnazione dell’uomo comune, con le sue velleità, aspirazioni, frustrazioni. Il più singolare ritratto sociologico del nostro tempo sulla famiglia, quale soltanto Balzac è riuscito a fare prima. E il fatto che a recitare siano cartoon, e non esseri umani, permette di non porsi limiti. […] Se l’arte è qualcosa che ci fa uscire dalla quotidianità, che ci fa riscoprire cose sotto i nostri occhi che però non riusciamo più a capire, allora […] I Simpson sono arte. Grande arte» (Aldo Grasso) • «Nel 2007 il Daily Telegraph lo colloca al quarto posto della classifica dei geni più influenti del pianeta, posizione che fu già di Nelson Mandela» (Ballario) • «Ha iniziato a disegnare quando aveva 12 anni, continuando come un matto finché non si è reso conto di due cose: “La prima è che so fare solo questo, la seconda è che meglio di così non mi viene”. […] Da piccolo vedeva il se stesso adulto come un impiegato in un deposito di pneumatici, che è un lavoro onesto ma estenuante, dice. “Avevo questa visione di me che nelle pause faccio disegnini sul mio boss. Un incubo che grazie a Dio non si è avverato”» (Biazzetti). «Devo dire che è una bella soddisfazione far passare le mie idee sulla vita made in Usa attraverso dei disegni animati. Ti dà l’impressione d’essere un dio: crei un intero universo e spingi un sacco di gente a comportamenti orrendi, e lo fai solo per tuo capriccio! Ma, detto ciò. a me pare d’essere un bonaccione a confronto di maestri come Robert Crumb di Fritz il gatto o di Art Spiegelman di Maus, o di Lynda Barry di Star bene mi uccide. Sono solo un cinquantanovenne [dichiarazione del 2013 – ndr] che con i dentini da latte ha divorato i Peanuts di Schulz, la mia prima vera spinta al fumetto di Life in Hell (ma sfido chiunque a trovare parentele con Snoopy o Charlie Brown). E che a sette anni, avendo visto La carica dei 101, ha voluto crearsi un mondo di cartoon tutto suo». «Amo lavorare nell’animazione, creare un mondo che non esiste, collaborare con menti brillanti, artisti, musicisti, scrittori. È meglio della realtà: è un sogno, ma vero».