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 2019  febbraio 14 Giovedì calendario

L’estinzione dei medici italiani

Chi ci curerà tra dieci anni? Avremo ancora un’assistenza specialistica adeguata nel Servizio sanitario nazionale? E la disponibilità di un medico di famiglia? Domande forse un po’ allarmistiche ma tutt’altro che peregrine, alla luce dei dati che sindacati e istituzioni dei medici hanno elaborato, attraverso proiezioni sulla differenza tra chi andrà in pensione e quanti si diplomeranno dalle Scuole di specializzazione post-universitaria nei prossimi anni.
Uno studio dell’Anaao-Assomed (sindacato dei medici specialisti) ha recentemente stimato la futura carenza di personale: nel 2025 mancheranno circa 16.500 specialisti, soprattutto nella medicina d’emergenzaurgenza e nella pediatria. Addirittura la Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo), in una mozione del suo Consiglio nazionale nel novembre scorso, parla di 45mila medici mancanti (compresi i medici di famiglia) tra 5 anni e 80mila tra dieci.
«Nei prossimi anni mediamente si laureeranno circa 10mila medici ogni anno – segnala il documento Anaao – ma il numero di contratti di formazione
post lauream, che solo nel 2018 è arrivato a circa settemila, è da tempo insufficiente a coprire la richiesta di specialisti e di percorsi formativi rispetto al numero di laureati». Per la medicina territoriale, cioè i medici di famiglia, la situazione è forse peggiore: secondo le proiezioni della Fimmg (il sindacato di categoria più rappresentativo), andranno in pensione oltre 14mila medici entro il 2022 (anno con il picco di 3.500 uscite dal lavoro), che diventeranno più di 29mila per il 2028. Un deficit difficile da colmare, se la formazione diploma solo mille medici di famiglia l’anno. Sottolinea Silvestro Scotti, segretario nazionale Fimmg: «Solo per il 2019 sono state stanziate risorse per duemila posti ai corsi di formazione in medicina generale, ma nel 2020 (a meno di nuovi fondi) torneranno a 1.200. E solo quest’anno per la prima volta sono stati suddivisi tra le Regioni in base ai residenti».
Tra le soluzioni, da tempo è stato suggerito di abolire il numero chiuso a Medicina e pochi giorni fa anche il ministro della Salute, Giulia Grillo, ha detto che «il problema della mancanza di organico non si risolve tenendo i medici per il colletto e facendoli lavorare fino a 70 anni. Dob- biamo far entrare i giovani, quindi bisogna rivedere questo benedetto numero chiuso che non è più adeguato ai tempi».
Ma la Fnomceo, in audizione la scorsa settimana alla commissione Cultura della Camera (che discute di riforma dell’accesso universitario), ha sottolineato che il problema è un altro: «L’abolizione tout court del numero programmato senza un congruo aumento delle borse di specializzazione sarebbe un boomerang». Si rischierebbe infatti di creare le condizioni perché un consistente numero di laureati in medicina – non potendo accedere alle specializzazioni – finisca in un limbo fatto di precariato e sostituzioni (senza specializzazione non si può accedere ai concorsi pubblici) o di emigrazione verso altri Paesi europei che da tempo ’assorbono’ giovani medici italiani.
Secondo la Fnomceo invece «è imprescindibile una programmazione efficace per cui a ogni laurea corrisponda una borsa di specializzazione o di formazione in medicina generale» per far sì che «tutti gli studenti che entrano nel percorso ne possano uscire con un diploma di formazione post laurea». In recenti dichiarazioni, il ministro Grillo ha segnalato la necessità di «rivedere la formazione post laurea», ma suggerendo di abbandonare «il concetto delle scuole di specializzazione. Facciamo entrare subito i medici nel mondo del lavoro».
Una ricetta che andrebbe precisata meglio nei suoi contorni, ma stando ai numeri dei medici in uscita (poco modificabili) un intervento sul percorso di entratapare indispensabile per raddrizzare la rotta in un sistema dove i diversi attori non sembrano agire all’unisono. Stato e Regioni, che pagano i posti (“borse”) della formazione specialistica, non hanno avuto finora la capacità di orientare l’offerta formativa delle università nel senso di garantire un adeguato ricambio di personale in base alle esigenze del Servizio sanitario. Ma il tempo per agire a salvaguardia del sistema sanitario pubblico, e dei pazienti, non è molto.