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 2019  febbraio 13 Mercoledì calendario

Il favoloso museo dei cani

Quando venerdì ho letto la notizia sul New York Post che a Manhattan è stato aperto il Museo del Cane l’ho considerata un’iniziativa più che dovuta, e semmai mi sono stupito che l’idea sia arrivata solo ora. È a due isolati dalla Grand Central Station, a Midtown, ed è stato aperto dall’America Kennel Club che l’ha trasferito a Manhattan dalla sede originaria di St. Louis, in Missori. La galleria di oltre 1000 metri quadri ospita quadri, sculture, fotografie, manufatti e oggetti, alcuni vecchi di secoli, anzi di millenni. L’oggetto piu’ antico è addirittura un Hesperocyon, un fossile di 30 milioni di anni fa, la bestia preistorica più vicina ai cani di oggi. Tra le celebrità c’è il quadro “Millie sul Prato Sud”, opera della pittrice Christine Merrill che ha ritratto lo springer spaniel di George Bush padre e Barbara Bush sul prato della Casa Bianca. Ci sono pure pannelli digitali interattivi e divertenti: in uno, il visitatore deve gridare “woof!” (termine americano che equivale al nostro “bau bau”) e appare l’immagine del cane che più gli assomiglia (tra le 193 razze in catalogo) e che può diventare il suo compagno ideale.

IL CIMITERO
I turisti in visita a New York, se amanti dei cani o semplicemente curiosi, hanno una destinazione in più da mettere in agenda. (https://museumofthedog.org). Ricordo ancora oggi lo stupore che mi prese quando, appena emigrato qui in America una ventina d’anni fa, vidi il primo cimitero per cani della mia vita. Era in Vermont, a St. Johnsbury, ed era stato aperto da poco, nel 1999. Una “Dog Chapel” sulla Dog Mountain. L’aveva creata un artista, Stephen Huneck, che aveva promesso l’anno prima, in punto di morte per una malattia respiratoria, di costruire un cimitero dove ogni essere vivente sarebbe stato accettato se lui fosse sopravvissuto. Ce la fece, e scelse come esempio centrale dell’accoglienza agli animali il cane, che da sempre era stato il tema dominante della sua produzione di quadri e di illustrazioni di libri e tappeti. Huneck unì l’utile al compassionevole, perché di fianco alla Dog Chapel aprì uno spaccio per la vendita di sue stampe, arazzi, quadri e mobilia, tutti ispirati all’amico dell’uomo. Poi, naturalmente, divenne una figura familiare per me la statua di Balto in Central Park. È lì dal 1925, quando fu commissionata dal Parco allo scultore di Brooklyn Frederick George Roth per celebrare l’eroismo dei cani da slitta capaci di missioni eccezionali. Balto era uno del branco di husky che, eroicamente, avevano percorso 675 miglia, 1000 kilometri, nella tormenta, in Alaska, per portare le medicine ad alcuni malati di difterite che erano rimasti isolati durante una devastante epidemia. I cani non entrano nelle chiese, si sa, ma a New York fa eccezione la “Cathedral of Saint John the Divine” che celebra ogni anno, a inizio di ottobre, la “benedizione degli animali” in onore di San Francesco: i cani, nell’occasione, vanno a messa in compagnia della fauna più disparata, dagli elefanti in giù.

POLITICA E ANIMALI
Nel Palazzo della politica, invece, i cani – senza offesa – sono a casa propria. Il presidente Harry Truman, al centro di battaglie astiose in Congresso, disse una frase che è rimasta celeberrima: «Se vuoi un amico a Washington, prendi un cane». Non a caso i cani sono i “pets”, animali di famiglia, preferiti dai presidenti: su 44, in 30 ne hanno avuto almeno uno, da George Washington a Barack Obama. Il feeling degli americani per i cani è tanto pervasivo da aver invaso l’economia e il costume, dalle catene di supermercati specializzati ad Hollywood che produce film a tema, con protagonisti i chihuahua di Beverly Hills e le manie dei loro padroni. La American Pet Products Association (APPA) ha stimato che il business legato alla industria degli animali domestici ha raggiunto i 60,59 miliardi di dollari nel 2015. I pompieri di New York hanno eletto come cane di compagnia, nelle loro caserme, il dalmata, un’altra razza cinematograficamente famosa. E nessuno qui dimentica di celebrare i 300 cani da salvataggio che lavorarono con i loro padroni tra le macerie di Ground Zero, l’11 settembre 2001, alla ricerca di vite umane. L’ultimo sopravvissuto, Bretagne, è morto nel 2016, e viene ricordato con una cerimonia ogni anno per ringraziarlo dei dieci giorni passati, senza tregua, a scavare tra le macerie quando aveva due anni per trovare persone ancora vive