La sua vita è la storia minima del disastro dove la natura sembrava invincibile, l’epitome della tragedia ambientale che minaccia tutti noi. Nel ventre montuoso dell’isola, che si protende a trifoglio tra i fiordi dell’estremo nord norvegese, «hanno iniziato i lavori due anni fa, e tra poco qui sorgeranno 67 pale eoliche», dice Reiulf. I Sami — lapponi delle terre artiche di Norvegia, Russia, Finlandia e Svezia — pascolano renne da molto prima che venisse scoperta l’energia elettrica. Sono stati emarginati per generazioni, trattati come bizzarri zoticoni. Gli anziani ricordano la vergogna con cui subivano il disprezzo razzista, eppure mai come ora che la loro cultura viene protetta — e i diritti sanciti da leggi — il mondo divora le loro terre inaridendo tradizioni millenarie con indifferenza.
Il più grande dei suoi figli, Sara Katrine, ha 18 anni e studia legge a Kautokeino, la capitale Sami norvegese. Dopo la laurea sogna di tornare a lavorare con il branco, come fa ogni estate con i fratellini, «ma non riesco a essere ottimista per lei. Il riscaldamento globale — spiega Reiulf — scioglie la prima neve e crea uno strato di ghiaccio a contatto col terreno, e sotto la neve fresca le renne non riescono più a trovare cibo. E ora il cantiere e le pale eoliche le mettono in fuga, disperate e impaurite: la Norvegia sta costruendo decine di parchi eolici distruggendo habitat e risorse con cui il mio popolo vive da sempre». Il più grande, quello sulla penisola di Fosen nel Trøndelag, avrà una capacità di 1 Gw: energia per 170mila case. Il parlamento Sami tenta da anni di fermarlo con la politica, inutilmente: ora ci sta provando in tribunale. Lotte analoghe sono state combattute dai Sami in Finlandia e Svezia, ma sono state perse ovunque. «Sara Katrine dice che questa è la sua vita, ma non so se potrà continuare la tradizione», dice Reiulf sconsolato.
Mentre lui e sua figlia combattono come Don Chisciotte la battaglia persa contro le pale eoliche, a una trentina di chilometri da qui la comunità scientifica, economica e politica è radunata a Tromsø nella 13esima edizione di Arctic Frontiers, a discutere dello sfruttamento "intelligente" delle straordinarie risorse energetiche e minerali, sempre meno protette dal gelo. E di come salvare questo povero mondo che asfissia nell’anidride carbonica, l’altro volto della medaglia, e affoga nei rifiuti plastici. La calotta artica si sta rapidamente sciogliendo e «dal 2045 sarà possibile navigare attraversando il Polo», dice Nick Huges del Norwegian Ice Service.
Ogni anno aumenta la flotta, per ora pionieristica, che ardisce al passaggio a Nord Est, sopra la Siberia; e le rompighiaccio per inaugurare le rotte brevi che i ghiacci disvelano: «Avete visto cosa ha combinato la Costa Concordia nel placido Mediterraneo? Pensate cosa può avvenire nell’Artico!», vaticina Michael Byers della University of British Colombia.
Ma la Norvegia tira dritto, e punta ad aprire nuovi pozzi off shore che «restano fonti affidabili per l’Europa», sostiene il ministro per Petrolio, Terje Søviknes. «Siamo in grado di conciliare crescita e protezione dell’Artico», aggiunge la ministra degli Esteri, Ine Søreide. Eppure, «solo bruciare le riserve già estratte — ricorda Myles Allen dell’Università di Oxford — basterebbe a farci superare 1,5 gradi di riscaldamento globale», limite massimo prima della catastrofe. E allora che senso ha esplorare ancora nel delicatissimo fondale artico? Il business, naturalmente, che alimenta il ricco Fondo sovrano norvegese: a gennaio il Norway’s Petroleum Directorate ha concesso 83 nuove licenze di esplorazione, 14 nel mare di Barents.
«Ridurremo le emissioni del 50% entro il 2030 e diventeremo leader nelle rinnovabili», dice il ministro dell’Ambiente, Ola Elvestuen. Ma la Norvegia ha 170mila posti di lavoro nel fossile, e non punta sul ridurre l’estrazione ma sugli incentivi alle auto elettriche e sul gigantesco piano di espansione dell’eolico nelle terre su cui pascola le renne il popolo Sami. Reiulf Aleksandersen è avvisato. «Per le strade del cantiere — una lunga ferita serpeggiante in un habitat incontaminato — hanno bombardato la montagna con la dinamite, e da allora devo rinchiudere le renne a valle alimentandole con mangime in pellets. Ora trascorrono l’inverno in gabbia come le vacche», sospira il pastore Sami. Il recinto è sull’altro versante della montagna rispetto a Sjøtun, dove vive. Ogni giorno Reiulf attraversa il monte in motoslitta, carica il mangime in un curioso cingolato delle nevi e poi lascia cadere una scia di minuscole crocchette. Qua e là distribuisce alle renne un po’ di muschio, «premio per le sofferenze. I parchi eolici le spaventano, sono intelligenti e diffidenti. Le attività umane le fanno fuggire sui monti troppo aspri per l’inverno: lassù non c’è cibo. E ogni tanto trovo una renna sfracellata in fondo ai precipizi».