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 2019  febbraio 12 Martedì calendario

L’italiano del Met che ridà colore all’antichità

«Altro che marmo bianco. Il mondo antico era a colori: proprio come il nostro». Nella sala deserta che ospita le sculture classiche del Metropolitan di New York, fra il celebre Dionisio e l’Amazzone ferita, poco prima dell’apertura al pubblico Marco Leona, lo scienziato italiano a capo del Dipartimento scientifico del museo, ti indica quella che a prima vista sembra una minuscola crosta di terra sul drappeggio di una statua, Donna anziana con cesto di frutta, copia romana di epoca imperiale di un’opera greca del II secolo. «Quella macchia, analizzata praticando una spettroscopia fluorescente ai raggi X con una delle macchine conservate nei nostri laboratori al piano interrato, si è rivelato pigmento azzurro contenente rame. Un solo frammento che ci ha permesso di rileggere l’intero significato dell’opera. L’abito riccamente colorato non poteva essere quello di una contadina che va al mercato come a lungo si è pensato. Oggi riteniamo rappresenti un’anziana cortigiana che porta offerte durante un corteo dionisiaco». Che il mondo classico non fosse quell’apoteosi di marmo bianco che dal Rinascimento in poi si è sempre supposto è ormai per gli studiosi molto più che un’ipotesi. «Il segreto meglio mantenuto dell’antichità è da sempre sotto gli occhi di tutti» dice Leona, mostrando un vaso greco del III secolo a.C. che rappresenta un artista intento a dipingere una statua davanti a un personaggio svolazzante sostenuto da Nike, la dea della vittoria. «Siamo davanti ad un’apoteosi di Ercole: l’eroe storico trasformato in divinità proprio da quell’atto di farne una statua colorata. Perché era così che poi venivano collocate le sculture nei templi: dipinte».
Peccato, ha fatto notare un lungo articolo sulla rivista New Yorker, che quello che sembrava destinato a essere solo “un dibattito accademico sulla natura della scultura antica” si sia trasformato di recente “in una questione politica”.
Con gli studiosi che si occupano dell’argomento finiti nel mirino dell’estrema destra americana suprematista e razzista: che considera l’idea di un mondo culturalmente – ed etnicamente – a colori un attacco alla loro ideologia secondo cui le radici dell’Occidente e l’ideale ariano affondano in una visione di Grecia classica bianca come il latte. Lo sa bene Sarah Bond, professoressa di Studi classici all’università dell’Iowa. Dopo aver pubblicato numerosi articoli su riviste specializzate, ma anche su Forbes, che sostenevano la rilettura a colori del mondo antico, la studiosa ha ricevuto minacce di morte, il suo dipartimento riempito di manifesti firmati “Identity Europa” dove a statue classiche bianchissime erano associati emblemi razzisti. Qualcosa di simile è successo alla classicista britannica Mary Beard, grande divulgatrice e autrice, fra gli altri, del bestsellerSPQR: linciata su Twitter per aver affermato che nell’antica Roma c’erano centurioni neri.
«A sbiancare il mondo antico è stato il tempo: ma anche l’uomo» spiega Leona. «Crollato l’impero romano le statue pagane vennero distrutte e abbandonate all’incuria del tempo.Sepolte per secoli si coprirono di croste. Fu il Rinascimento a creare il nostro immaginario attuale del mondo antico. Dal Cinquecento in poi, convinti che la perfezione non potesse che celarsi nel candore del marmo, si ripulì ogni traccia alternativa. E addio a quei colori vibranti che conosciamo grazie agli scavi di Pompei».
Le fonti non mancano: da Vitruvio a Plinio in tanti hanno dettagliato il processo di colorare le sculture. Con pigmenti estratti da minerali e mescolati con tuorlo d’uovo o cera d’api e la vernice applicata con arcaici pennelli fatti di canne spaccate e uno strumento a forma di spatola. «L’antipatia dei greci per il marmo bianco è celebrata anche in un passaggio di Euripide, che fa dire ad Elena di Troia: “Se solo potessi perdere la mia bellezza e imbruttirmi allo stesso modo in cui si toglie colore da una statua"» nota la studiosa di Harvard Susanne Ebbinghaus sullo Smithsonian Magazine. «Dove si allude alla natura transitoria della pittura statuaria che poteva essere facilmente rimossa. E si sottolinea come proprio il colore naturalistico fosse per i greci l’essenza della bellezza».
Per i romani le cose erano lievemente differenti: «Mark Abbe, il più importante studioso americano di policromia antica, pensa che i romani utilizzassero il colore sulle statue diversamente dai greci» continua Leona dribblando tra i capolavori del Met. «Nel periodo repubblicano s’importavano da Paros marmi pregiati dal colore perlaceo, molto apprezzati. Per questo i romani non dipingevano l’incarnato delle statue, lasciando vedere il marmo, simbolo di lusso: ma applicavano una sorta di make up colorando guance, labbra, ciglia e capelli». I ritrovamenti più recenti conservano ancora tracce di colore, dice ancora lo scienziato guidandoci nei laboratori da lui creati quando approdò qui nel 2004 e dove lavora con un team di 14 scienziati, 5 dei quali italiani. «Qui eseguiamo spettroscopie Raman, una tecnica usata anche nelle indagini forensi basata su radiazioni elettromagnetiche e capace di riconoscere la composizione molecolare di campioni minuscoli, utilissima per distinguere un pigmento da un’alterazione naturale». È proprio la tecnologia a confermare che il mondo classico era a colori. E in futuro potrebbe aiutarci a vedere com’era realmente. «Oggi i restauri mirano a conservare quei pochi brandelli di colore che resistono: ma nessuno si sogna di ridipingere alcunché. Però già si pensa di affiancare a certe statue schermi dove visualizzare in 3D la versione colorata. Si sta già facendo per opere contemporanee. È stata ad esempio creata una versione digitale degli Iris di Van Gogh, che lui descriveva al fratello viola su fondo rosa ma che il tempo e l’ossidazione ce li fa vedere blu su fondo bianco».
Ok. Ma siamo davvero pronti ad abbandonare un immaginario stratificato da secoli di sbiancamento e decine di kolossal hollywoodiani? Si può rinunciare all’idea di una Roma antica bianca e marziale e di una Grecia classica marmorea e ideale? «Gli studiosi non hanno più dubbi sul fatto che il mondo antico era colorato e multiculturale. Roma ha avuto imperatori africani e siriani: e non conosciamo la sfumatura della loro pelle. Bisognerebbe capire che all’epoca non esisteva il concetto d’inferiorità di un popolo. Per i greci gli schiavi potevano avere occhi azzurri e capelli biondi. E la parola sclavus, schiavo, deriva da “prigioniero di guerra slavo”. Ai suprematisti bisognerebbe dire che l’ideale di bellezza antico consisteva semmai in una pelle scura: abbronzata diremmo oggi. Eppure…». Eppure? «Qui al Met, dove pure studiamo il colore delle statue, non abbiamo mai avuto attacchi razzisti. Ma quando l’artista David Hockney e il fisico Charles Falco dimostrarono che i maestri del Rinascimento usavano strumenti ottici per tracciare immagini ci furono proteste e perfino picchettaggi. Volevamo ridurre il genio degli artisti a meccanica, dissero. Ma comprendere non vuol dire smettere di amare le cose così come le conosciamo. È come salire su una macchina del tempo: e affrontare un affascinantissimo viaggio».