la Repubblica, 12 febbraio 2019
Quel giorno all’alba con Montalbán e il suo sandwich
Nel ’91 venni a Barcellona per un’inchiesta sui Giochi e di sera chiamai Manuel Vázquez Montalbán. Non c’era, lasciai un messaggio, scesi a fare due passi. Non avevo preavvertito, né preso un appuntamento, non avevo molte speranze. Al ritorno il telefono dell’albergo lampeggiava: «Richiami». Solo due persone hanno risposto ai miei messaggi: Montalbán nel 91 e nel ’98 a Parigi l’attore francese Michel Piccoli.
Era tardi, mi vergognai, ma richiamai. Rispose in italiano, lo parlava bene, disse che si era interessato di architettura barocca, che stava scrivendo la biografia di Franco e che l’indomani sarebbe partito presto di mattina per la Galizia. Rischiai: vediamoci prima? «Ma parto alle 8».
Allora alle 6? Ho fatto solo due interviste all’alba: una a Montalbán e l’altra a un fantino a San Siro. Suonai al cancello di Vallvidrera con una bottiglia di Rosso di Montalcino, lui mi regalò un bianco del Penedes. Lo salutai in cucina, prima di partire si era fatto un sandwich, avvolto nella carta argentata, da portare in viaggio. Mi commosse: da quando gli scrittori famosi sembrano bambini che vanno a scuola con la merenda? Prima lezione: abbi sempre appetito.
Vinicius de Moraes ha scritto che la vita è l’arte dell’incontro. Lo è anche lo sport. In una trasferta di calcio in Turchia, su un piccolo aereo, servirono una coscia di agnello fritto. «Buono, il migliore mai mangiato», disse Gianni Mura, mio collega, esperto di calcio, di ciclismo, di poesia, di canzoni popolari e della Resistenza, di enogastronomia. Chiesi alla compagnia aerea chi cucinava i loro pasti. «La mamma del pilota», fu la risposta. Seconda lezione: non giudicare mai dall’apparenza.
A Parigi ai mondiali ’98, sempre con Mura, incontrammo un produttore italiano di Prosecco, che riforniva il regista Marco Ferreri, morto un anno prima. «Non mi andava l’idea che Ferreri non ci fosse più, sono venuto lo stesso, con l’auto piena di bollicine in memoria». Le lasciò a noi: le nostre stanze diventarono cantine e le nostre colazioni più alcoliche. Non si beve senza plafond, sentenziò Mura. E andò a reperire formaggi, baguette e frutta. Della Spagna recitavamo la formazione catalana: Zubizarreta-Ferrer-Nadal-Abelardo-Amor-Celade s-Pizzi-Luis Enrique col naso rotto che colava sangue e peccato per il Pep, infortunato a casa. Terza lezione: non smettere mai di avere sete.
Ai mondiali del ’90 in treno tra Napoli e Roma, Santiago Segurola mi spiegò la storia dei Paesi Baschi, dell’Athletic, dello stadio San Mames, La Catedral. Allora nei viaggi con i colleghi si parlava: di paesi, pensieri, culture, di Joan Manuel Serrat, di Antonio Diaz Miguel, di Juan Antonio San Epifanio, Epi, delle voci di Jordi Bastè, Lluis Canut, Jordi Robirosa, di terre, di confini, e di tutto quello che entra in una porta e in un canestro.
Quarta lezione: Quan s’apaguen el llums non pensare di saperne più degli altri.
Sono cresciuta con l’alfabeto all’incontrario: Zafon, Zamora, Zubizarreta, Vilanova, Xavi, Suarez, Rodoreda, Ronaldo, Piqué, Montserrat Caballè, Montalban, Messi, Maradona, Kubala, Herrera, Quini, Gaudì, Guardiola, Cruyff, Busquets, Alba. Con l’idea che certe squadre hanno facce e cuore, Tant se val d’on venim si del sud o del nord, che certi gol e piedi sinistri sono una magnifica enciclopedia culturale e che il Barcelona, made in Masia, di Valdés, Montoya, Jordi Alba, Piqué, Puyol, Busquets, Xavi, Fabregas, Pedro, Messi e Iniesta che vince 4-0 con il Levante, era un formula economica da non perdere. Quinta lezione: la cucina fatta in casa è buona.
In un ottobre piovoso del 2009 ero al Monumental di Buenos Aires per Argentina-Perù, la squadra di Maradona si qualificò per i mondiali al 94° con un gol di Martin Palermo, che dieci anni prima aveva sbagliato 3 rigori in una partita. Era una notte da destino storto, tuoni e fulmini, la collega Cristina Cubero, un pulcino bagnato, inginocchiata sul suo computer, ormai scarico, ma testarda nel riuscire a mandare il suo pezzo, in mezzo a ruscelli d’acqua. Non c’erano prese dove collegarci, una notte da lasciare perdere, senza ripari, le strade allagate, le macchine che correvano, zero taxi. Ci dividemmo: Cristina, Paolo Condò e io, giocando a zona. Per mezz’ora niente, poi ne vidi uno fuori servizio, mi buttai sul cofano, entrai, feci entrare gli altri.
L’autista aveva un appuntamento con una donna, Chiquita, gli diceva al telefono, aspetto i tuoi baci, ma arrivo un po’ in ritardo, devo sbarazzarmi di alcuni clienti, e noi, no, no passaci Chiquita, portaci in albergo. Baci tardivi, tango da impermeabile, notte da romanzo tra Montalbán e Soriano. Sesta lezione: giocare, scrivere, vivere, è uno sport di squadra.
Grazie a tutti quelli che hanno fatto squadra con me. Puoi anche essere bravo, ma qualcuno ti deve far giocare, e il mio giornale, Repubblica, non solo mi ha messo in campo, ma mi ha dato spazio. Aligi e Angelo, capi e amici, grazie per aver corretto i miei sbagli d’italiano, anche se alla fine ho fatto venire i dubbi anche a voi.
Grazie al presidente Bartomeu che chiamandomi, senza intermediari, mi ha dimostrato che la semplicità è la forma più elegante di democrazia diretta. Sesta lezione: da soli si è qualcuno, insieme si è qualcosa.
Nel ‘94 ero a San Paolo, in Brasile, per i funerali di Ayrton Senna, da lì volai a Bariloche in Argentina e fui la prima a intervistare il criminale nazista Priebke, tra gli autori della strage della Fosse Ardeatine. Passai da un campione che ci teneva a vincere per il suo popolo ad un uomo che ancora si vantava del massacro. «Certo che ho sparato, molte volte, ma erano terroristi». No, Priebke, erano civili. Settima lezione, con le parole di Montalbán: «Quando il passato resuscita, i colpevoli tornano ad essere quello che sono sempre stati: assassini». Volevo arrivare alla lezione numero undici, il perché lo capite anche da voi. Ma sono per una cronica sentimental veloce. Sono stata arrestata due volte perché seguivo la boxe e le donne non fanno certe cose. Ho fatto delle interviste bendata, perché gli atleti erano a torso nudo e le donne non guardano certe cose.Dedico questo premio alla generazione delle nostre madri che ci hanno spinto ad essere noi stesse: a trovare le parole per dirlo e la cultura per farlo.
E a tutto quello che vive nel mare Mediterraneo perché le diversità sono una ricchezza immensa.
Nell’anniversario in cui l’uomo è andato sulla Luna, a 120 anni dalla fondazione del Barca, voi mi premiate sulla Terra. Merci.