la Repubblica, 12 febbraio 2019
Allo Sviluppo economico Di Maio è un fantasma
C’è un fantasma che si aggira – anzi, per la verità il più delle volte se ne sta chiuso nella sua stanza – in cima allo scalone di Palazzo Piacentini, imponente e fascistissima sede del ministero dello Sviluppo economico in via Veneto a Roma. Un fantasma di nome Luigi Di Maio: molti dei quindici direttori generali del ministero – gli alti burocrati, o i tecnici, chiamateli come volete, comunque quelli che fanno andare avanti la macchina dell’amministrazione – sanno che c’è ma non sono mai riusciti ad incontrarlo, tantomeno a fare una riunione con lui; le segretarie lo vedono entrare e uscire in perfetto silenzio; alti dirigenti di società partecipate chiedono invano di incontrarlo da mesi. Ma solo una stretta cerchia di eletti, o per meglio dire designati, pare essere ammessa in sua presenza.
Così quando l’ectoplasmatico ministro dello Sviluppo economico ha battuto un colpo venerdì scorso con una vorticosa rotazione degli incarichi tra gli stessi direttori generali, cambiando competenze a dieci di loro su quindici, le sue dichiarazioni affidate a Facebook hanno provocato malumori a ripetizione. «Non voglio generalizzare – ha scritto Di Maio ma finalmente arriverà un po’ di aria fresca dopo decenni in cui nulla o quasi nulla è mai cambiato. È tempo di togliere le incrostazioni che si sono accumulate nel corso degli anni», anche perché servono «più efficienza, più risparmi; non si campa più di rendita e di posizioni acquisite. Adesso se vuoi andare avanti devi dimostrare di meritarlo e di saper far bene il tuo lavoro, anche all’interno delle strutture pubbliche».
Parole d’oro. Se non fosse che alcuni di quei dirigenti spiegano appunto che, con buona pace dell’efficienza, loro Di Maio in otto mesi di governo gialloverde non sono mai riusciti ad incontrarlo e che a dispetto della solida edilizia del Ventennio, il ministero oggi è una barca alla deriva. Lamenti di burocrati frustrati e frustati dal vento nuovo della rivoluzione gialloverde? Possibile che ci sia anche questo elemento, ma certo qualcosa non torna nel superministero che ha 2500 dipendenti diretti e quasi diecimila con le partecipate e gestisce partite enormi come quella da 14 miliardi di euro sulla gestione delle fonti rinnovabili di energia.
Del resto con il triplice ruolo di vicepremier, ministro del Lavoro e ministro dello Sviluppo economico e tre distinti uffici non si può certo pretendere dal leader dei Cinque Stelle una presenza a tempo pieno a via Veneto. Anche per questo, forse, l’interlocuzione con Di Maio è difficile pure per le aziende partecipate dal ministero. L’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri, che pure si occupa di tutti i contratti di sviluppo, solo per fare il caso più recente, è riuscito appena poche settimane fa – dopo mesi di richieste e qualche fugace incontro collettivo – a parlare faccia a faccia con il ministro.
La rotazione dei direttori generali, poi, pare essere stata attuata non solo in base al principio cardine del grillismo che “uno vale uno”, ma a una ancor più avanzata elaborazione secondo cui “uno vale l’altro”. Così alla fondamentale direzione per gli incentivi all’industria è stata ad esempio mandata Laura Aria, che da oltre un decennio era distaccata al Garante delle Comunicazioni come vicesegretaria generale: espertissima di tv avrà adesso bisogno di un bel po’ di tempo per dominare una materia tecnica del tutto diversa. Chi invece aveva competenze sul tema, come Carlo Sappino, è stato spostato alle attività territoriali. Qualche esitazione si è mostrata solo per le delicatissime direzioni energetiche. Così Gilberto Dialuce che stava alle Infrastrutture energetiche è finito al Mercato elettrico e la sua collega Sara Romano ha fatto il percorso esattamente inverso. Impossibile non pensare all’apocrifo Regolamento della Real Marina del Regno delle Due Sicilie: “All’ordine ‘Facite Ammuina’ tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora...».
Se i direttori generali sono mortificati nelle loro funzioni qualcuno di loro è intenzionato a lasciare il prima possibile, anche in vista di un ulteriore round di riorganizzazione che Di Maio ha annunciato entro giugno – cresce a dismisura la forza degli uomini chiamati in via Veneto dal ministro. Non è solo il caso di Salvo Cozzolino, potente capo di gabinetto di Federica Guidi quando era lei il ministro, poi allontanato dal successore al dicastero Carlo Calenda, e infine riportato al suo posto da Di Maio.
Ma anche, ad esempio, quello del segretario generale Salvatore Barca, un dipendente del ministero promosso sul campo e di cui l’Espresso ha raccontato a dicembre la laurea presa in un’università telematica e l’incarico in una Coop fallita prima di passare nel 2013 alla Camera come capo della segreteria di Di Maio e poi tornare con lui al ministero. Assieme a una squadra che vede molti campani doc come lo stesso ministro – tra di loro il consigliere Carmine America che si occupa di Difesa e il capo della Segreteria tecnica Daniel De Vito e che attorno a Di Maio stendono un impenetrabile cordone.