La Stampa, 12 febbraio 2019
Intervista a Buffon: «Mi vedo in campo fino a 80 anni»
L’ultima e unica volta di Gigi Buffon a Old Trafford in una gara ufficiale è la finale di Champions nel 2003 persa contro il Milan. Da questo stadio, stasera riparte la corsa alla coppa del portiere dei portieri. Andata degli ottavi contro il Manchester United, sulle spalle di Gigi la maglia numero uno del Paris Saint Germain.
Se con la Juventus era un’ossessione, qui che cos’è la Champions?
«Un giorno a carriera finita, vi racconterò davvero il mio rapporto con questo torneo. Di sicuro non è mai stata un’ossessione, ma una grande fortuna: quella di poter giocare a un livello che non ha eguali. Certo, alla Juve le pressioni erano diverse, il tam tam cominciava a settembre e questa aspettativa non ti mollava per tutta la stagione. Al Psg è un obiettivo molto importante ma qui società e tifosi riescono a viverla diversamente».
Che partita sarà con lo United?
«Tosta ed equilibrata. Al momento del sorteggio avrei detto ottanta possibilità per noi e venti per loro. Ora stiamo a pari, noi siamo senza Neymar e loro dopo il cambio di allenatore hanno infilato una serie incredibile di vittorie».
Possibile che Pogba giocasse così male solo a causa di Mourinho?
«Non ho mai creduto ai calciatori che remano contro l’allenatore. È più una questione di empatia, l’ho provato anche io in carriera. Paul ora è consacrato, era un ragazzo adesso è un “ometto” con personalità ben spiccata. È il punto di riferimento del Manchester».
Riavvolgiamo il nastro: dalla firma con il Psg sono passati otto mesi. Che cosa ha capito di questo nuovo mondo?
«Mamma mia, già così tanti. Sono volati. Sto vivendo un’esperienza molto bella, riprogrammarsi con l’entusiasmo che ci ho messo io ti regala molto. Ti migliora».
In che senso?
«Mi sono tolto dopo 40 anni da una zona di comfort e rimesso in gioco in campo e nella vita. Magari la gente manco ci crede o pensa che sia una cavolata, ma per me il solo capire una nuova lingua e provare a parlarla mi fa evolvere, mi allarga la mente».
Alla Juventus storia, tradizione e vittorie. Ora che ne è protagonista, ci spiega che tipo di club è il Psg?
«Questa è una società in cui si è compreso perfettamente che per essere considerati grandi si doveva dare spazio anche all’immagine. Quindi, oltre all’aspetto tecnico che resta fondamentale, si è data attenzione anche a quanto poteva intrigare l’opinione pubblica mondiale e gli sponsor. In questo senso il Psg lavora sulla propria immagine come nessun altro club al mondo. Poi non bisogna mai dimenticare che si tratta di una società con una proprietà nuova e solida da soli 8 anni. È chiaro che ci sono ancora dei margini di crescita. È normale. Ma credo che poco per volta si stia costruendo qualcosa di importante».
Per questo hanno scelto Buffon?
«Immagino l’abbiano fatto perché mettessi a disposizione le mie conoscenze, tutto quello che ho imparato in un club unico come la Juve».
E che cosa ha portato?
«Quando entri in un mondo nuovo devi avere l’umiltà di capire che tutto quello che hai vissuto fin lì, anche se è stata la migliore esperienza del mondo, non deve essere imposto altrimenti se ne perdono i benefici. Devi avere pazienza e tolleranza, una goccia di saggezza ogni tanto. Diversamente sembri un despota, i più giovani per un po’ ti seguono e poi ti mandano anche a quel paese».
Otto mesi sono sufficienti per Buffon parigino?
«Sì, mi sono scoperto a fare l’escursionista. Sono innamorato di place de Vosges e del Marais, potrei vivere lì tutta la vita».
Ha sempre avuto un concetto molto alto di Patria. Lo ritrova nei francesi?
«Sì. Poi ci sono momenti in cui anche loro sparano fango su chi li governa, ma siamo simili».
Gilet gialli, migranti: tra Italia e Francia è scontro totale. Visto da Parigi, sta cambiando il rapporto tra noi e loro?
«Di fondo, direi di no. Noi restiamo più sanguigni, magari ci scanniamo per una partita di calcio mentre loro vanno in piazza e manifestano per cose che sentono più importanti».
Gli italiani sono francesi di buon umore: lo diceva Cocteau, è d’accordo?
«Sì. E lo dimostra l’accoglienza che ho avuto, affetto e stima senza precedenti. Mi hanno commosso. La verità è che noi siamo l’estensione della Francia e la Francia lo è dell’Italia. E che effetto poi sentirmi chiamare il portiere transalpino».
Che sensazioni prova quando vede giocare la Juve?
«Mi sento un vecchio amico. Io sono affezionato alla Juve, ci vorremo bene per sempre. Anche il fatto di essersi separati non ha provocato polemiche, c’è grande rispetto e stima. Ho visto il secondo tempo della partita di coppa Italia con l’Atalanta, ecco avrei voluto essere lì per riuscire a dare una mano in qualche modo ai miei ex compagni».
Ronaldo: si aspettava questo impatto?
«Sì. Ha dato linfa nuova a tutto l’ambiente. Il pres è stato bravo a capire come ci fosse bisogno di una scintilla per riaccendere l’entusiasmo».
Atletico Madrid-Juve che partita sarà?
«Se c’è una squadra dura da battere è proprio l’Atletico, ma questa Juve non deve avere paura di niente e di nessuno».
Neymar e Mbappé in quale categoria stanno?
«Sono fuoriclasse. Ney è un talento quasi inarrivabile, se non lo conosci può anche non suscitare simpatia. Invece è un ragazzo persino timido, molto altruista. Ha un lato umano che chi è tifoso non vede, abbagliato dalla stella. E mi chiedo come non abbia ancora vinto il Pallone d’oro, talenti cristallini come il suo ne ho visti davvero pochi. Lui vale Messi e Ronaldo».
Mbappé invece?
«Ha un entusiasmo e un talento devastante, è sempre sorridente, gli piace scherzare. Ma deve ancora crescere, se vuole essere il migliore al mondo per i prossimi dieci anni deve tener presente che non lo si diventa solo per le doti naturali, ma serve applicazione e senso del lavoro».
Ha sotto gli occhi tutti i giorni Verratti: noi non l’abbiamo ancora capito. Ci aiuta a farlo?
«In Italia non lo capiamo perché è di difficile collocazione. Non so dove, ma uno come lui deve sempre giocare. Ha personalità, strafottenza e tecnica per inventarsi ogni tipo di colpo. Ha qualcosa in più degli altri».
Il suo arrivo gli ha dato equilibrio?
«Non ne ha bisogno, se glielo dai si ammoscia. Cerco di trasmettergli serenità e convinzione».
Verratti è uno dei gioielli di Mancini, la Nazionale sta uscendo dal buio?
«Il processo di sofferenza è terminato, siamo in una sorta di rinascimento che spero verrà suffragato dai risultati. L’Italia sta tornando a dare qualche zampata. Zaniolo, Barella, Verratti, Chiesa che ora segna con continuità, Gigio che sta crescendo bene. E poi ci sono Chiello e Leo, siamo in buone mani».
Se la Nazionale è il passato, che cosa c’è nel suo futuro?
«A 41 anni non ho smesso di sognare. E quando sogni è bello vedersi in tante situazioni diverse. Ho bisogno di entusiasmo, l’anno scorso pensavo di smettere e mi ha creato troppa negatività. Per questo io sogno nella mia testa di stare sul campo fino a 80 anni, il nonno in porta con il bastone e con la maglia numero uno. E al tempo stesso immagino che tutto possa finire domani. Non mi pongo limiti, ma so che il conto prima o poi arriverà».
Vialli capo delegazione azzurra: le piace l’idea?
«Sarebbe bellissimo. Quello di cui ha bisogno l’Italia per risollevarsi anche dal punto di vista manageriale».
Siamo rimasti tutti scioccati dalla sua malattia: perché abbiamo la tendenza a credervi invulnerabili?
«Perché alla fine rappresentiamo la figura dell’eroe americano, i sogni e le emozioni della gente. Se manchi tu la gente sente morire il suo sogno. Lo capisco bene, anche io l’ho vissuta. E sapere che il mio eroe non sta bene mi condiziona. E mi disillude».
La parola francese che le piace di più?
«Mi fa impazzire quando dicono, con tutte quelle erre arrotate, “je suis très heureux”. Mi sto allenando anche qui».