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 2019  febbraio 12 Martedì calendario

Giappone, vent’anni di tassi a zero

I predicatori medievali ne sarebbero stati entusiasti: il denaro, “sterco del diavolo”, non doveva generare altro denaro e ogni interesse concesso era da considerare usura, proibita da un passo del Vangelo di Marco. Sono passati vent’anni da quando la Banca del Giappone (BoJ) introdusse un grande esperimento di politica monetaria, portando a zero i tassi nominali di riferimento: divenne così pioniera dell’innovativo (ma anche medievale) concetto secondo cui il tempo non è denaro, mentre due anni dopo fu la prima a inoltrarsi nei territori inesplorati del Quantitative easing, inondando di liquidità il sistema finanziario in aggiunta ai tassi zero. Quelle che sembrarono peculiarità giapponesi finirono per diventare “mainstream” in seguito alla crisi finanziaria globale del 2008, foriera di strategie ancora meno ortodosse, incentrate su tassi addirittura negativi su cui la BoJ finì per accodarsi parzialmente alla Banca centrale europea. La rivoluzione della “nuova normalità” di tassi infimi è ancora in corso, con la BoJ non più pioniera ma fanalino di coda dei tentativi di rinormalizzare le politiche monetarie guidati dalla Fed.
L’uomo passato alla storia per aver introdotto la ZIRP (Zero interest rate policy), in realtà, era tra i meno convinti che la misura sarebbe servita a porre fine a un decennio di deflazione e a rilanciare l’economia: il governatore Masaru Hayashi riteneva assurdo chiedere miracoli alla sola politica monetaria e dava molta più importanza a riforme sistemiche in grado di rafforzare produttività e potenziale di crescita. 
Alla cruciale riunione del 12 febbraio 1999, il board della BoJ fu affiancato da alcuni funzionari del governo in qualità di osservatori: sintomo evidente delle pressioni politiche sull’istituto centrale, da parte di un governo per di più spaventato dall’ascesa dello yen nei mesi precedenti. La riluttanza della BoJ ad adattarsi alla ZIRP trovò conferma un anno e mezzo dopo, quando colse la prima occasione per riportare i tassi allo 0,25%: mossa poi considerata intempestiva, in quanto, con lo scoppio della bolla Internet, l’economia andò in recessione. Ne fu incolpata proprio la banca centrale, che dovette reagire con un rilancio: non solo il ritorno a tassi zero, ma il primo Qe, che poi fece scuola sulla scia del crollo della Lehman Brothers. 
Un altro rilancio indotto dalla politica avvenne nel 2013, con l’ancora più radicale strategia di “Allentamento Quantitativo e Qualitativo” promossa dal governatore Haruhiko Kuroda ma intestata al premier Shinzo Abe quale prima «freccia» della sua Abenomics (aggiornata tre anni fa con l’introduzione di tassi negativi su una parte delle riserve in eccesso delle istituzioni finanziarie).
Al confronto, la mera Zirp di Hayami appare modesta e prudente. Non la pensava così il vecchio governatore, scettico sulle tesi sottostanti all’esperimento. In sintesi, i fautori evidenziano le presunte virtù dei tassi zero nello stimolare le imprese a indebitarsi per investire e i consumatori a farlo per comprare beni durevoli e case, innescando un circolo virtuoso tra consumi e investimenti in grado di reflazionare l’economia. La critica forse più acuta venne da Richard Koo del Nomura Institute, con il suo concetto di «balance sheet recession»: quando, dopo un trauma, i soggetti economici sono concentrati sulla minimizzazione del debito più che sulla massimizzazione dei profitti, restano riluttati a indebitarsi anche nelle condizioni più favorevoli. Se il cavallo non vuole bere, insomma, è inutile mettergli più acqua davanti alla bocca. 
In un contesto non molto cambiato nel tempo, appariva destinato a non essere conseguito il target di inflazione del 2% introdotto da Kuroda sei anni fa (l’anno scorso la BoJ ha smesso di pronosticare la tempistica per il raggiungimento di questo obiettivo, dopo averlo rinviato parecchie volte fino a perdere credibilità).
Vent’anni dopo, gli analisti restano divisi nei giudizi sulle politiche ultra-espansive della BoJ. Gli ottimisti sottolineano che senza i tassi zero e il successivo Qe l’economia giapponese sarebbe andata peggio e che l’effetto collaterale non dichiarato (uno yen più debole) ha frenato la de-industrializzazione del Paese. I critici evidenziano che per la BoJ sarà difficilissima la prima o poi inevitabile «exit-strategy», oltre a sottolineare gli effetti distorsivi sui mercati delle strategie di una banca centrale che è arrivata a detenere oltre il 40% dei titoli pubblici di debito e il 5% della Borsa, con asset totali superiori al Pil nazionale. Per la verità, un principio di “tapering” nascosto è stato introdotto fin dal settembre 2016, quando la BoJ annunciò che si sarebbe focalizzata sul mantenere intorno a zero i rendimenti dei decennali più che su una espansione numerica della base monetaria, il che le ha consentito di quasi dimezzare l’anno scorso gli acquisti di JGB. 
Tra gli scontenti, spiccano le banche commerciali giapponesi (per l’effetto depressivo sulla redditività di tassi zero o negativi) e i risparmiatori nipponici, che nel loro portafoglio – per atavica prudenza – continuano a tenere troppa liquidità che non rende nulla. Senza contare che, in termini relativi verso l’esterno, il giapponese medio risulta impoverito da un debole tasso di cambio (il principale effetto collaterale, gradito al governo): come turista all’estero, è stato surclassato non solo dai cinesi ma anche dai coreani. In compenso, la bilancia turistica giapponese è andata in positivo. 
Vent’anni passati tra tassi zero e Qe, insomma, hanno contribuito a cambiare i connotati nazionali. Tra l’altro, la conseguente spinta agli investimenti delle imprese all’estero (in mancanza di grandi opportunità in patria) oggi genera una bilancia dei pagamenti in forte surplus: il Paese che più invecchia al mondo è diventato come un anziano che può aspirare a vivere di rendita sugli investimenti pregressi. Senza preoccuparsi troppo di un debito quasi tutto denominato in yen.