il Giornale, 12 febbraio 2019
Intervista a Davide Dattoli, fondatore della piattaforma Talent Garden
Davide Dattoli è un uomo che va dritto al punto senza usare perifrasi. È troppo mosso dalla fretta di tagliare il traguardo per svicolare. Le radici c’entrano in tutto questo: «Essere partiti da Brescia ci ha dato quella praticità e voglia di fare che ha poi permesso di realizzare i nostri piani», confessa. È cresciuto in una terra di concretezza ed imprenditoria, due sostantivi che del resto viaggiano in combinata. Racconta la sua storia con normalità. È cofondatore e Ceo di Talent Garden, la più grande piattaforma di formazione e networking in Europa. Un’officina di talenti del digitale che operano in spazi condivisi (di co-working appunto), contaminandosi. Talent Garden accoglie startupper, professionisti, freelance e aziende vere e proprie, si va da Uber a Tesla, Google, Deliveroo, Poste Italiane, Eni. È presente in otto Paesi con 23 campus, le aziende coinvolte sono 500 e i talenti 3500. È il numero uno in Europa. Ma la scalata internazionale non si ferma. Anzi.
Piattaforma, laboratorio, azienda. Come definire Talent Garden?
«Un’azienda-piattaforma che connette i talenti e ne supporta la crescita in Europa nel mondo digitale. La nostra missione è quella di cambiare un poco l’ecosistema digitale europeo, che dal punto di vista di Pil rappresenta il 4%, ma crediamo che nei prossimi 10 anni diventerà una parte fondamentale».
La sua più grande intuizione?
«L’aver messo l’uomo al centro di tutto, aver colto la necessità di creare spazi fisici dove favorire le sinapsi fra individui, in un mondo sempre più digitale il tornare alla fisicità, al prendersi un caffè insieme diventa la vera sfida di oggi. Avere un giardino di talenti, un luogo dove le persone possono crescere assieme è l’unico modo per affrontare il futuro. Sono sempre esistiti luoghi di aggregazione di talenti, si chiamavano corti, accademie, caffè letterari, distretti industriali. Alla fine, solo uomo, solo nuovi talenti possono creare un nuovo Rinascimento».
In attesa del Rinascimento, ora che fase stiamo o staremmo vivendo?
«Siamo al Medioevo digitale, con pochi centri che accolgono i talenti migliori e tutt’intorno parecchio casino».
Talent Garden piantò il suo primo germoglio in piena crisi economica
«Le crisi portano sempre opportunità».
Dove avete il vostro quartier generale?
«A Milano, tuttavia anche Torino è molto importante, grazie all’accordo con Fondazione Agnelli è diventato uno dei punti principali, con un campus di 350 persone. Il bacino torinese è molto vivo. In giugno abbiamo fatto un evento che si chiama Connected City, riflettendo su come la città del futuro evolverà basandosi sui dati. È di fatto una call europea, lanciata ora ma aperta tutto l’anno, impegnata a raccogliere e supportare le migliori idee di startup e di progetti innovativi sul tema dei dati per migliorare la città».
E la mente corre al torinese Carlo Ratti.
«Che subito ci diede una mano. A partire dalla concezione di questa sede milanese in via Calabiana, è stato il suo studio a reinventare i nostri spazi di lavoro».
Quante persone lavorano in un campus?
«Da un minimo di 250 a un massimo di 500. Non sono solo luoghi di coworking, anche di formazione con Talent Garden Innovation School: ad oggi, nella sola Milano, siamo arrivati a formare circa 500 ragazzi all’anno».
Formati in cosa esattamente?
«Sui temi delle nuove professioni del digitale. Sviluppatori software, esperti di marketing digitale, esperti di dati e user experience, e la cosa bella è che, nel corso di 2 o 3 mesi dopo la fine del corso, il 98% di loro trova un lavoro. Formiamo con queste competenze anche i manager: 2500 ogni anno».
Corsi brevi, dunque
«E molto focalizzati. Periodicamente rianalizziamo il mercato del digitale. Vediamo quali sono le professioni più richieste e costruiamo percorsi professionali ad hoc».
Le migliaia di talenti coinvolti cosa hanno in comune?
«Una grande passione per il proprio lavoro».
Lei quanto lavora?
«Undici ore al giorno, sei giorni su sette».
Sveglia alle...?
«5.30, un po’ di palestra e si parte. Un paio di volte alla settimana sono all’estero a visitare i campus, un giorno o due in città italiane, un giorno e mezzo a Milano».
Come fa?
«Vado a letto presto».
Come De Niro-Noodles in C’era una volta l’America.
«Non so lui. Io alle 10 al massimo dormo».
Niente Milano da bere insomma.
«La mia vita mondana si ferma all’aperitivo. Ho bisogno di dormire tanto, lo trovo il miglior modo per combattere lo stress. Toglietemi tutto ma non il sonno».
Questa è una delle strategie per mantenere la sua calma olimpica?
«Non solo, perchè non bisogna prendersi troppo sul serio. Il business è fondamentale, ma, come dico sempre, se facessi il dottore starei operando a cuore aperto e probabilmente non riuscirei a vivere, ma siccome nella peggiore delle ipotesi hai sbagliato una cosa e poi troverai il modo per aggiustarla, non puoi rovinarti la vita».
Quanto è competitivo?
«Mediamente competitivo, diciamo ambizioso».
Cosa distingue i talenti italiani rispetto agli altri?
«Sono molto sgobboni, non hanno problemi a mettersi in gioco. Quello che talvolta manca è l’ambizione internazionale. Siamo ancora troppi provinciali».
Forse anche un po’ esterofili? Convinti che all’estero siano migliori?
«Il punto è che ci sentiamo il centro del mondo, guardiamo il mappamondo con un focus sul nostro Paese senza capire che l’Italia non è il centro. Questo fa sì che si strutturino progetti per un mercato di 60 milioni di persone anziché 8 miliardi».
Proviene da una famiglia di imprenditori?
«Mamma seguiva il mondo degli eventi. Quando papà è venuto a mancare, anche lei si è concentrata sul mondo della ristorazione. Penso che l’attitudine a mettere insieme le persone e farle star bene l’abbia appresa in casa».
Ha fondato Tag nel 2011. Niente università, dunque?
«Finito il Liceo Scientifico, mi ero iscritto a Economia e Commercio, ma abbandonai il corso dopo neanche un anno. Avevo in testa un’azienda che poi fondai».
E com’era a scuola?
«Andavo malissimo, non sono mai stato bocciato ma sono sempre stato l’ultimo della classe. Non trovavo abbastanza stimoli, mi appassionavo quando trovavo un bravo professore».
La disciplina prediletta?
«Storia. Ma in latino che disastro...».
Fra viaggi, riunioni, nuovi sviluppi, c’è spazio per la vita privata?
«Sono fidanzato da sette anni, se non riesci a bilanciare l’aspetto personale con quello lavorativo a un certo punto poi ti schianti».
Lei che vive di digitale, che canali usa per informarsi?
«Il giornale cartaceo girato su iphone. Poi molto twitter e i Feed RSS»
La pensavamo al capezzale della carta. Che giudizio dà ai media tradizionali?
«Il mondo editoriale è in profonda e totale evoluzione. La vera sfida è riposizionarsi su quello da cui tutto è partito, cioè il lettore. Il punto è riuscire a ritrasformare i giornalisti e il mondo editoriale su questo, su ciò che davvero vuole l’utente attorno al quale va costruita la notizia».
Fino ad ora, quanti milioni sono stati investiti su di voi?
«Circa 16 milioni. Abbiamo coinvolto alcuni tra i più importanti family office e imprenditori italiani grazie al supporto di Tamburi Investment Patners».
Per diventare membri di Talent Garden che parametri bisogna rispettare? Come selezionate?
«Digitale, passione per il proprio lavoro e per il resto funziona come un club: bisogna essere presentati da qualcuno che è già dentro o venire a raccontarci perché si crede di poter portare valore entrando in Talent Garden».
Quanto costa stare da voi?
«Ci sono 3 membership principali: la media è di 300 euro al mese, per un desk 24 ore al giorno 7 su 7, quindi assolutamente competitivo».
Di cosa va orgoglioso?
«Dell’aver creato ambienti dove c’è un effetto di contagio positivo. Ho visto ambienti dove invece il talento finisce per ammalarsi. Lanciamo un appello ai giovani pieni di buone idee e speranze ma che si misurano con realtà che affossano ogni buon proposito. Non devono arrendersi».
Anche lei è di quelli che spara a zero sull’università italiana?
«Dico solo che non ha senso preparare decine di migliaia di avvocati quando il mercato ne può assorbire al massimo poche migliaia. In compenso, manca la formazione per le professioni più richieste. C’è il rischio di riempire i giovani di false speranze. Il tema è far ripartire il mondo universitario focalizzandolo sul Paese che vogliamo costruire».
Ora gli occhi sono puntati su?
«Irlanda e Austria. Dopo l’estate apriremo un campus a Dublino e l’altro a Vienna. L’Irlanda è il luogo dove le grandi corporate internazionali e start up, una volta arrivate dagli Usa, iniziano lo sviluppo in Europa. Portano un grandissimo bacino di talenti che appunto vorremmo intercettare».
Perché Vienna?
«Guarda all’Est Europa, è un’area meno competitiva, ma dove negli ultimi anni si è investito moltissimo su questi temi. C’è il Pioneers Festival ad esempio, uno dei più importanti festival europei di start up».
E che dire del gran colpo negli agguerriti, digitalmente parlando, Paesi nordici?
«Quest’inverno abbiamo comprato una quota di controllo pari al 51% di Rainmaking Loft, una rete di quattro spazi di co-working a Copenaghen, ora si chiama Talent Garden Rainmaking, abbiamo un piano di espansione».
In cosa eccellono i nordici?
«Sono maestri nel capitalizzare il tempo. Alle 4 massimo 5 di sera sono fuori ufficio, escono quando noi siamo ancora nel bel mezzo del pomeriggio. Riescono perché lavorano in modo molto strutturato».
Come si vede da qui ai prossimi cinque anni?
«Immagino che Talent Garden sarà presente in tutti i grandi mercati d’Europa eccetto Londra naturalmente, dove sono presenti cose simili alle nostre. Poi abbiamo firmato un accordo con Cassa Depositi e Prestiti per l’apertura, nel 2019, di un primo Italian innovation hub a San Francisco. Vorremmo espanderci anche a Tel Aviv e Shenzhen così da permettere ai talenti europei che vogliono andare in giro per il mondo di avere un primo hub a cui appoggiarsi».
Creare aziende in Italia, Paese che spesso mortifica l’imprenditoria, è un atto di coraggio.
«Però ci sono tanti vantaggi. Aprire un’impresa di questo tipo a San Francisco è più semplice burocraticamente parlando, ma c’è più competizione, mentre partendo da Brescia la competizione è quasi nulla. Magari tra qualche anno le cose saranno diverse, basti pensare a ciò che è riuscita a fare New York negli ultimi 5 anni, ma anche Londra, o Parigi, che grazie all’apporto dei suoi politici è riuscita a cambiare l’immagine della Francia, trasformandolo nel polo più innovativo d’Europa, e ciò in un Paese che d’innovativo non aveva nulla».
Quindi che dire al nuovo Governo?
«Che senza una visione a lungo termine non si va da nessuna parte. Per supportare la crescita, bisogna avere una visione a lungo raggio. Dovremmo pensare a come vogliamo essere nei prossimi 30 anni e non 3 mesi».