Il Messaggero, 12 febbraio 2019
Bauhaus, il tesoro dei font tipografici
C’è un mondo sotterraneo, ma al tempo stesso sotto gli occhi di tutti, in cui per secoli si ridisegnano e si rimodellano senza sosta le stesse forme, è il mondo dei font. Siamo circondati dalla presenza fisica del linguaggio, la scrittura sui giornali, sugli schermi dei telefonini, in strada sui cartelloni, sul packaging negli scaffali, ma è difficile fare attenzione allo stile grafico con cui questo linguaggio si esprime: i caratteri. Ed eppure l’occhio nota le differenze e le utilizza – un font può facilitare o meno la lettura, evidenziare i passaggi, rilassare o irrigidire la percezione. I designer di font si muovono in spazi stretti, decimi di millimetro, angoli compressi o rilasciati di pochi gradi, curvature accennate, e in quell’universo di dettagli versano la loro concezione del mondo. Le linee si slanciano o si compattano, si contraggono o si ammorbidiscono inseguendo il canone che il creatore vuole trasmettere.
IL PIONIERE
Così fu disegnato uno dei primi font moderni, il Bodoni, dal nome del suo creatore, Giambattista Bodoni (1740-1813), stampatore a capo della Tipografia Reale di Parma. Bodoni era un razionalista ante litteram, un seguace del motto form follows function (che però non conosceva visto che è d’inizio Novecento) e verso la fine del Diciottesimo Secolo pubblicò un manuale tipografico in cui delineava le caratteristiche di un buon carattere: regolarità, leggibilità, sobrietà e bellezza. E così volle incarnarle in un font, il Bodoni, usando la geometria per assicurare il bilanciamento di ogni singola lettera. È uno stile pulito dai tratti verticali in cui le linee, a volte spesse, altre sottili, si intersecano armoniosamente dando l’impressione sia di eleganza che di facilità di lettura.
Con un prodigioso salto in avanti di un secolo e mezzo, nei quali lavorano decine di tipografi in tutto il mondo occidentale anche creando fortunate imprese commerciali, arriviamo al Novecento. È nei decenni del primo dopoguerra che nascono alcuni dei font moderni che avranno più fortuna sui giornali, nei loghi e nei cartelloni pubblicitari. Il Times New Roman, nato nel 1931, fu commissionato da The Times al compasso di Stanley Morison perché abbinasse la leggibilità a un buon riempimento dello spazio stretto delle colonne dei quotidiani. Degli stessi anni è il Futura, letteralmente adorato dalle agenzie pubblicitarie dell’epoca, prima di essere detronizzato dall’Helvetica negli anni 50. La storia della tipografia è anche fatta di infatuazioni, mode e tradimenti, anche se alcuni caratteri hanno un fascino che non scema con gli anni, anzi con i secoli se pensiamo che la maggior parte degli editori italiani stampa i propri libri con una versione rimaneggiata del Garamond, cioè un carattere disegnato quasi mezzo millennio fa.
Ma i primi del Novecento è anche un periodo in cui la creatività si sbizzarrisce per traslare nei caratteri l’effervescenza culturale del momento. I tipografi artigianali vengono affiancati dai designer e dagli architetti di cui i font diventano una firma una firma malleabile e manipolabile dal resto del mondo. Un esempio significativo è Bauhaus, una scuola d’arte e design che ebbe una vita relativamente breve (creata nel 1919, venne chiusa dai nazisti nel 1933) e che combinava l’artigianalità con le belle arti, nonché promuoveva gli interessi paralleli fra diverse discipline visive.
IL PROGETTO
Recentemente, alcuni studi tipografici provenienti dalla scuola Bauhaus sono stati riscoperti e messi a disposizione del pubblico nel progetto Adobe Hidden Treasures (www.adobehiddentreasures.com) che vuole riportare alla luce, in una specie di archeologia dei font, delle gemme dimenticate per quasi cento anni. L’idea è partita dal ritrovamento negli archivi di appunti, lettere e schizzi di tipografia di alcuni dei suoi esponenti più significativi. Erano progetti preziosi, lasciati incompiuti forse dalla chiusura della scuola, allora l’azienda informatica Adobe ha messo insieme una squadra di cinque designer che studiassero il materiale e finissero il progetto nello stesso spirito e razionalità con cui era stato cominciato. Si tratta di un patrimonio di cinque alfabeti, di cui due sono già stati digitalizzati e messi a disposizione. È un lavoro di precisione e rigore, in cui ogni singolo carattere viene smembrato nei componenti primari per arrivare alla sua struttura e riempire così i pezzi mancanti. Il primo è stato rigenerato dagli studi di un famoso insegnante della Bauhaus, Joost Schmidt, che aveva anche creato il poster per l’esibizione del 1923, l’altro dalle carte di Xanti Schawinsky, che univa la formazione di pittore a un approccio rigoroso al design e alla fotografia e che lo avrebbe portato a disegnare le campagne della Cinzano e a contribuire alla linee della Olivetti Studio 42 un talento poliedrico, proprio nello spirito della scuola Bauhaus.
I TASSELLI
Altri tre set di caratteri, ispirati da altrettanti esponenti della scuola tedesca, saranno messi a disposizione nel futuro, quelli di Carl Marx, Alfred Arndt, e Reingold Rossig. Si tratta di nuovi prestigiosi tasselli nella comunicazione visuale, nuovi arnesi nella cassetta degli attrezzi dei grafici per aggiungere vitalità e senso alle parole scritte. In un certo senso, è una variazione insita nelle parole di Marshall McLuhan «il medium è il messaggio». Non importa solo quello che diciamo, ma come lo diciamo, e i font sono da secoli un pezzo importante di quel come.