il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2019
Turchia, che fine hanno fatto le vittime delle purghe?
“Quando vado a fare la spesa, mi fa stare male sentire il commerciante che mi dice: ‘Non voglio vedere traditori della patria nel mio negozio’. Ma sto ancora più male quando devo convincere i miei figli che non ho fatto nulla di male e li devo supplicare di credermi. Ma quando per la strada le persone urlano contro mio figlio: ‘Sappiamo tutto di tua madre, tutto il quartiere lo sa’, ripetere che non ho fatto nulla, non basta più”.
La donna che ha scritto queste poche righe ha preferito non dire il suo nome. Ritiene che le autorità turche l’abbiano lasciata sola, in balia della rabbia del popolo, e per il solo fatto che, tempo fa, aveva aderito a un sindacato. La sua è una delle migliaia di testimonianze raccolte dall’associazione Giustizia per le vittime, che di recente ha pubblicato un rapporto sui “Costi sociali dello stato di emergenza in Turchia”.
Traditori della patria
Il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato lo stato di emergenza il 20 luglio 2016, cinque giorni dopo il tentato colpo di stato attribuito al predicatore islamista Fethullah Gülen, un ex alleato del capo dello Stato diventato poi il suo peggior nemico. Tra l’entrata in vigore del regime speciale e la sua revoca effettiva, il 25 luglio 2018, circa 170 mila persone accusate di legami con l’organizzazione gülenista FETÖ sono state perseguite in giudizio e tra loro più di 50 mila sono finite in prigione.
Circa 130 mila dipendenti pubblici sono stati inoltre costretti a lasciare i loro posti di lavoro, nella maggior parte dei casi senza alcuna spiegazione. Una caccia alle streghe che ha permesso al governo di sbarazzarsi anche di numerosi sindacalisti e militanti di sinistra e pro-curdi.
In tutto 2.862 vittime dirette delle epurazioni del governo, 591 di loro familiari (coniuge, genitori, figli, fratelli… per il 43,8% dei quali la persona cara si trova ancora in custodia cautelare) e un campione “neutro” di altre 323 persone hanno risposto agli appelli sui social network e delle associazioni di vittime delle purghe, rispondendo su Internet alle 175 domande dell’inchiesta, tra il 2 agosto e il 23 settembre 2018.
Gli intervistati sono soprattutto uomini (72,2%), con un alto livello di istruzione (94,6%, con diploma superiore o più), nella maggior parte dei casi sposati (84,5%), con in media due figli e di orientamento politico per lo più conservatore (il 47,7% di loro si dichiara conservatore, il 16,9% nazionalista, il 7% islamista). Le vittime dirette sono soprattutto ex dipendenti pubblici (93,2%), per lo più mandati via di forza (94,5%). Il 55% circa di loro è stato in prigione dopo il tentativo di golpe.
Dalle loro testimonianze emergono innanzi tutto gravi difficoltà materiali.
Dopo aver perso il lavoro, le vittime dirette della repressione dichiarano di aver perso in media il 77% del loro reddito, passato da 3.500 lire turche (Tl, cioè circa 570 euro) a 800 Tl (130 euro). I familiari hanno subito a loro volta dei danni e perso il 50% dei loro redditi. Se prima dello stato di emergenza solo il 3,2% di queste persone percepiva un reddito inferiore ai 2.000 Tl (300 euro), si trova ora in questa condizione l’82,9% di loro, di cui il 41,7% dice di guadagnare meno di 250 Tl (40 euro) al mese. Il salario minimo al primo gennaio 2019 era di 2.020 Tl.
Un sentimento di ostilità
Al momento dell’inchiesta, la metà delle vittime delle purghe era ancora in cerca di occupazione. Il 14,9% ha detto di fare lavoretti precari per vivere e l’8,3% di aver smesso di lavorare (pensionati, casalinghe, ripresa degli studi…). Più di un quarto dei loro familiari era a sua volta disoccupato, più del tasso di disoccupazione ufficiale, che era dell’11,6% a novembre.
Alle difficoltà finanziarie si aggiungono i disagi legati al sentimento di ostilità che circonda le vittime delle epurazioni e i loro cari. I tre quarti degli intervistati confessano di aver perso la maggior parte degli amici. Per più della metà, la porta dei vicini è ormai chiusa. Più di un terzo dice di aver subito molestie. Numerose vittime dirette della repressione non sono più in buoni rapporti con i propri fratelli (38,4%), i genitori (27,6%), i figli (23,9%), o il coniuge (31,7%, nel 6,3% dei casi la relazione è sfociata nella separazione o nel divorzio).
“Dal giorno in cui sono stato sospeso, tutti i miei colleghi di lavoro hanno smesso di parlarmi e di rispondere alle mie chiamate. Mia moglie e i miei figli hanno il morale a pezzi. Non vedo più mio padre. I nostri amici non osano più venire a casa”, testimonia una delle vittime.
Per sfuggire alle pressioni, la metà delle vittime delle purghe dice di aver cambiato quartiere o città e l’83,9% pensa di lasciare la Turchia se si presenta l’opportunità. Il 9,9% sostiene anche di aver già tentato di lasciare il Paese, per via legali o no.
Ma partire non permette alle vittime di sfuggire al proprio inferno interiore. I principali disagi psicologici sono: il timore persistente che la propria situazione possa aggravarsi in modo improvviso (73,4%), la mancanza totale di fiducia nel futuro (71,8%), disturbi del sonno (68,4%), il sentimento di isolamento (66,9%), cambiamenti bruschi e frequenti di umore (63,4%), in alcuni casi anche pulsioni suicide (14,2%). Il 5% delle vittime delle purghe e dei loro cari sostiene di essersi confrontato ad almeno un tentativo di suicidio in famiglia e una percentuale analoga di persone ritiene che la morte per malattia di un membro della famiglia sia legata allo stress e al dolore causati dalla repressione. Un rapporto pubblicato nel luglio 2018 dal partito dell’opposizione social-democratica Chp aveva registrato 52 casi di suicidio legati alla repressione.
Uno choc violento
Secondo Bayram Erzurumluoglu, direttore del team di sociologi e psichiatri che ha portato avanti l’inchiesta, lo choc psicologico è stato ancora più violento per le persone che si rivendicano di tradizione conservatrice, la grande maggioranza, educate nel rispetto dello Stato.
“Queste persone erano abituate a pensare che lo Stato fosse per loro come una madre. Ma, da un giorno all’altro, quella madre si è trasformata in un mostro che fa di tutto per distruggerle – spiega l’esperto, che è stato a sua volta licenziato dal posto di professore associato che occupava al dipartimento di economia dell’università di Adiyaman – In un solo giorno, queste persone, che hanno tutte diplomi superiori, e che fino a quel momento erano rispettate dalla comunità, hanno scoperto che la loro presenza non era più gradita, sono diventate l’incarnazione stessa del male”.
A Mediapart Erzurumluoglu ha spiegato: “Prima c’è stato lo choc, poi l’isolamento e l’incapacità di farsi ascoltare, quindi si è raggiunto lo stato descritto dallo psicologo comportamentista americano Martin Seligman che parla di impotenza appresa, in cui la vittima è convinta che, pur con tutti gli sforzi, nulla potrà mai cambiare”.
Nove vittime delle purghe intervistate su dieci hanno detto di aver presentato ricorso alla commissione d’inchiesta sulla gestione dello stato di emergenza. Ma, al momento dell’inchiesta, i tre quarti di loro erano ancora in attesa di risposta, il 13,4% aveva ricevuto una risposta negativa e solo lo 0,5% – ovvero 14 persone – aveva potuto reintegrare il posto di lavoro.
(traduzione Luana De Micco)