La Stampa, 11 febbraio 2019
Il primo fornitore d’armi del Turkmenistan è l’Italia
Turkmenistan, terra di steppe, nomadi, cavalli di selvaggia bellezza. E armi. Armi italiane in particolare. Lontanissima da noi, piantata nel centro dell’Asia, tra Iran, Turchia, Afghanistan, questa Repubblica ex sovietica brilla per due cose: l’enorme quantità di gas naturale che conserva sottoterra e le bizzarrie dei suoi dittatori.
Quello che c’era prima aveva persino cambiato nome ai mesi dell’anno, aveva proibito il playback perchè tutti dovevano saper cantare, pretendeva che i suoi ministri imparassero in sei mesi l’inglese sennò li avrebbe cacciati, voleva portare i pinguini in uno zoo nel deserto, e s’era fatto costruire una statua in oro, girevole, affinché avesse sempre il sole in faccia.
Quello attuale, Gurbanguly Berdymukhamedov, un dentista divenuto inopinatamente leader supremo nel 2006, ha anche lui modi da satrapo, ma più moderato.
Per un compleanno, ha voluto Jennifer Lopez a cantargli «happy birthday». Oppure si è fatto intervistare in tv mentre lancia coltelli e spara contro le sagome di un poligono. Ha però ripristinato il vecchio nome ai mesi.
Come il suo predecessore, anche il presidente Berdymukhamedov è un osservato speciale da parte dell’Onu e dalle Ong internazionali. Eppure nessuno disdegna di stringere affari con il Turkmenistan.
Quel gas fa gola a tutti.
La Cina ha costruito a tempo di record un gasdotto che la congiunge ai turkmeni attraversando l’Afghanistan. Anche l’Europa sogna di connettersi a quei giacimenti con una pipeline e aggirare la dipendenza dalla Russia. È il Gran Gioco dell’energia.
Diplomazia ed energia
L’Eni è presente in Turkmenistan dal 2008 dopo avere acquistato una piccola società britannica, la Burren Energy Plc. Il nostro corteggiamento, però, parte da lontano. La prima visita di un sottosegretario risale al maggio 2007, durante il governo Prodi. È in preparazione la prima e unica conferenza Italia-Asia centrale che non darà grandi risultati immediati. Ma è l’occasione per rompere il ghiaccio. Subito dopo, nel 2008, subentra il governo Berlusconi e in Turkmenistan sbarca Alfredo Mantica, il nuovo sottosegretario agli Esteri, inviato a preparare una visita del presidente turkmeno a Roma.
Berlusconi lo riceve a palazzo Chigi nel novembre 2009. E sono i soliti lazzi, con il premier che fa lo spiritoso verso una ministra ospite, ma anche i soliti business, con la firma di quattro accordi bilaterali. «L’Italia è per noi una porta aperta verso l’Europa», si compiace Berdymukhamedov al termine. E infatti l’Eni mette radici, si apre un’ambasciata, comincia l’interscambio commerciale.
Con contorno di armi. Giusto il tempo di conoscersi, annusare l’aria, stipulare i contratti, e in Turkmenistan arrivano elicotteri, aerei da trasporto, cannoni, fucili, pistole, missili.
Nel 2011, per dire, Finmeccanica-Leonardo è autorizzata alla vendita di 5 elicotteri AW-139 per 64 milioni di euro con relativo corso di pilotaggio, training alla manutenzione e supporto tecnico.
Viene poi il governo Renzi, ma la musica non cambia. Anzi. Tra il 2014 e il 2015, il premier fiorentino fa tappa in Turkmenistan tornando dall’Australia e in seguito il loro presidente torna a Roma, accolto stavolta sia a palazzo Chigi che al Quirinale. Nel novembre 2014, l’amministratore delegato Claudio Descalzi può esultare per la firma di nuove intese. «Un accordo strategico - scrive - che rafforza la presenza di Eni in Turkmenistan, paese dall’elevato potenziale minerario, e consolida il rapporto di Eni con le autorità nazionali e la società di Stato Turkmenneft».
La strategia degli arsenali
Ebbene, uno dei risultati di questo scambio di amorosi sensi è che gli arsenali turkmeni nel giro di pochi anni si sono rimpinzati di armi italiane. Secondo Bellingcat, un team internazionale di giornalismo investigativo, che dedica alla connection italo-turkmena un articolo sul suo sito, è significativa la quantità di armi italiane giunte in quel Paese. In breve: «Tra il 2007 e il 2017, il Turkmenistan ha speso in armamenti circa 340 milioni di euro, il 76% dei quali (per un totale di 257 milioni di euro) vengono dall’Italia». Come documenta Bellingcat, le armi italiane sono ostentate ormai ad ogni parata.
Nel 2017, un’esercitazione a fuoco da parte di questi due elicotteri di produzione italiana con livrea turkmena, lungo il confine con l’Iran, è trasmessa alla televisione nazionale, ma le inquadrature migliori sono dedicate al presidente Berdymukhamedov mentre assiste compiaciuto con binocolo agli occhi.
Lo scoglio della legge
Apparentemente tutto è in regola. Ogni vendita è stata autorizzata dall’ufficio competente presso la Farnesina, l’UAMA, Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento. Anche le Relazioni al Parlamento non tacciono sul Turkmenistan. L’ultima Relazione disponibile, quella per le attività del 2017, dà conto di vendite per 46 milioni di euro (su un totale di 8 miliardi di euro di incassi da questo settore nell’anno): i soggetti citati sono Beretta, Leonardo, Mbda Italia (missilistica), MES Meccanica (visori notturni).
Normale? In effetti il Turkmenistan non è un Paese in guerra, né è sottoposto a embargo internazionale. Alla maniera della Svizzera, ha dichiarato la più stretta neutralità nell’area caucasica. Non sembrano esserci ostacoli alla vendita. Sennonché la legge italiana stabilisce che l’UAMA, per autorizzare queste forniture particolarmente sensibili, deve valutare se gli armamenti non vadano verso Paesi «i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa». E questo potrebbe essere il caso del Turkmenistan, dove le libertà sono gravemente compromesse.
Ma come si fa a incrociare la lista della spesa con la lista dei Paesi che violano i diritti umani? Il governo italiano si guarda bene dall’esprimere una valutazione al riguardo. Si allega alla Relazione esclusivamente la lista dei Paesi in guerra e sotto embargo delle Nazioni Unite.
C’è stato un unico caso, nel 2007, quando appunto c’era Romano Prodi al governo, che la Relazione sulle vendite di armi fu accompagnata da un elenco finalmente completo, sia dei Paesi sotto embargo, sia di quelli sotto osservazione per violazione ai diritti umani. «Fu un nostro successo - racconta Giorgio Beretta, attivista di Rete Disarmo - grazie a un dialogo serrato con l’allora sottosegretario alla Presidenza, Enrico Letta».
In quella Relazione, (che alla voce Turkmenistan scriveva : «Profonda preoccupazione della comunità internazionale sulla situazione dei diritti umani sulla base della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 60/172 del 2005») non per caso si annunciava anche l’intenzione di agevolare la partecipazione delle Ong a incontri con le autorità ministeriali per valutare insieme l’andamento e le attività inerenti le esportazioni di armi. «Poi però venne il governo Berlusconi e tutto finì», dice ancora Beretta.