La Stampa, 11 febbraio 2019
Lega e M5s voglio usare l’oro della Banca d’Italia (due articoli)
C’è un video che gira dal 2014 e che immortala la deputata del M5S Carla Ruocco durante un’audizione in commissione alla Camera mentre chiede a Ignazio Visco: «Dov’è finito l’oro della Banca d’Italia?». Il governatore non sa cosa rispondere e imbarazzato per la domanda ride prima di replicare l’ovvio: «E’ in Banca d’Italia», aggiungendo: «La Banca è un’istituzione seria». A Visco quello scambio di battute che gli sarà parso quantomeno strambo è quasi certamente tornato in mente in questi giorni di fronte all’insistente indiscrezione che rimbalza da ambienti finanziari e che spiegherebbe una delle ragioni dell’assalto del governo ai vertici di Via Nazionale. L’idea dei gialloverdi sarebbe quella di usare una parte delle riserve auree per dirottarle sulla spesa, evitando così una manovra correttiva e l’aumento dell’Iva nella legge di Bilancio del prossimo anno, esito che nell’esecutivo cominciano a considerare scontato se la crescita continuerà a essere così rallentata.
A rafforzare i timori che siano queste le intenzioni dei grillo-leghisti sono due elementi apparsi negli ultimi mesi, in piena sessione di Bilancio, e tornati prepotentemente all’attenzione in queste ore. Un post nel Blog personale di Beppe Grillo e una legge firmata dall’economista no-euro, presidente della commissione Bilancio della Camera in quota Lega, Claudio Borghi. Entrambi sono finiti sulla scrivania del governatore e del direttore generale di Bankitalia.
Partiamo dal primo. È il 9 settembre 2018, Grillo pubblica un articolo a firma Gabriele Gattozzi, che dal sito personale risulta essere docente all’Università della Terza età di Trento. Con tanto di tabelle, spiega che la Banca d’Italia è la terza detentrice di riserve auree al mondo, dopo la Federal Reserve statunitense e la Bundesbank tedesca (quarta, se si considera anche il Fondo monetario internazionale). Al netto del trasferimento di 141 tonnellate alla Banca centrale europea, è pari a 2.452 tonnellate (metriche). Prevalentemente sono lingotti (95 mila), il resto monete. Gli altri Paesi europei, dice il post di Grillo, hanno venduto dal 20% al 60% del loro oro. E l’Italia? «Non ha venduto nemmeno un grammo di metallo prezioso. Perché?». Potrebbe farlo, continua l’articolo, «nel corso di un eventuale CBGA giunto alla quinta edizione (è il Central Bank Gold Agreement, che disciplina la vendita dell’oro delle banche centrali, di durata quinquennale, ndr) che potrebbe partire già dal quarto trimestre del 2019 sulla base del prezzo di mercato odierno di 33,34 Euro/grammo». Una scadenza con un tempismo perfetto. Perché darebbe una mano in vista della prossima manovra. «Sarebbe una misura una tantum quinquennale ma che potrebbe permetterci di tirare il fiato e fornire una copertura extra budget – senza sforare gli stringenti parametri comunitari – da destinare a provvedimenti urgenti e non rimandabili. Ma soprattutto consentirebbe di porre finalmente un termine a questa fastidiosa litania sul fatto che “non ci sono i soldi». Sono stati calcolati circa 16-20 miliardi di introiti, poco meno di quello che serve per sterilizzare l’Iva. Più che il fiato il governo tirerebbe un sospiro di sollievo. Che l’idea sia condivisa tra i due partiti di maggioranza lo prova che due mesi dopo il post di Grillo, il leghista Borghi ha depositato una proposta di legge sull’oro posto a garanzia dalla Banca quando l’Italia aveva una sua moneta sovrana che lo porrebbe sotto la diretta proprietà dello Stato.
Fantafinanziaria? Non proprio, almeno a sentire le fonti politiche e tecniche del Tesoro che intrecciano la vicenda dell’oro al braccio di ferro scatenato dal M5S sulla riconferma di Luigi Federico Signorini a vice-direttore generale, colpevole per i grillini di aver criticato il reddito di cittadinanza e riforma delle pensioni, Quota 100, e di non aver vigilato abbastanza sulle ultime crisi bancarie. Una sostituzione coatta che secondo il ministro dell’Economia Giovanni Tria sarebbe la prova di un’invasione della politica nelle prerogative del governatore e che minerebbe il principio fondante dell’Istituto di vigilanza: l’indipendenza. «Va difesa» ha ribadito ieri Tria in risposta agli attacchi ripetuti di Di Maio e di Matteo Salvini. Il premier Giuseppe Conte, a cui secondo le procedure spetta la delibera sulla base dell’indicazione del numero uno di Palazzo Koch, non ha ancora deciso. E mentre il Quirinale tace, ansioso di capire se Conte si farà trascinare dalle convinzioni politiche dei suoi vice, il M5S è in fortissimo pressing sul premier e Di Maio dà per scontata la decisione: «Conte non può opporsi, è espressione del M5S e presidente del Consiglio di un governo politico. Sa bene che Signorini rappresenta la continuità». Cioè i grillini sono certi che Conte è pronto a sfidare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che dovrà firmare il decreto di nomina. Anzi, il premier lo avrebbe già fatto spiegando al Capo dello Stato che la politica vuole questo: la testa di Signorini, un cambio interno per dare un segnale di discontinuità, chiunque sia il sostituto.
Ilario Lombardo
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Francesco Spini
Più dei chiavistelli dei caveau, a difendere i sacri lingotti aurei della Banca d’Italia sono i trattati europei e lo statuto della Bce, con parole che ai governi hanno sempre dato l’orticaria, come «indipendenza» o «autonomia» delle banche centrali dagli Stati.
Se lo sentì dire forte e chiaro già nel 2009 Silvio Berlusconi quando, col suo ministro dell’Economia Giulio Tremonti, propose una tassa sulle plusvalenze ottenute dai «detentori di metalli per uso non industriale». Chiaro che il bersaglio numero uno fosse proprio la Banca d’Italia. Palazzo Chigi usò guanti di velluto e ne subordinò l’adozione al consenso di Via Nazionale e al parere favorevole di Francoforte.
La Banca centrale europea disse che no, non si poteva fare. Norme come quella, scrisse l’istituto nel parere del 14 luglio 2019, quando Jean-Claude Trichet occupava ancora la poltrona oggi di Mario Draghi, «darebbero luogo a trasferimenti di talune risorse finanziarie dalla Banca d’Italia al bilancio dello Stato». E il Trattato Ue su questo ha regole molto stringenti.
La Bce dunque concluse che anche solo l’idea di una tassa «desta preoccupazioni con riferimento all’indipendenza istituzionale e finanziaria della Banca d’Italia, consentendo un’arbitraria diminuzione delle risorse della stessa». Insomma, anche con un’imposta (figuriamoci con la sua sottrazione) «la posizione finanziaria» di via Nazionale «risulterebbe indebolita» e questo «con l’aumento del rischio che essa possa non avere risorse sufficienti in futuro per adempiere alla sue funzioni connesse» col sistema europeo delle banche centrali e non solo. Riassumendo: «Ne risulterebbe pregiudicata la sua indipendenza istituzionale».
E allora di chi è l’oro di Via Nazionale: della Patria o della Banca? Secondo l’attuale direttore generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, solo la Bce può deciderlo. Di certo più volte è entrato nel mirino dei governi che si sono succeduti. Si tratta di un tesoro da 2.400 tonnellate, per un valore che oscilla tra gli 80 e i 90 miliardi di euro. Meno della metà è conservato nel caveau di Palazzo Koch a Roma, mentre la maggior parte è suddiviso tra gli Stati Uniti, i sotterranei della Banca d’Inghilterra a Londra e quelli della Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea.
Anche da sinistra hanno provato ad allungare le mani verso quei forzieri. Il governo Prodi, per dire, nel luglio del 2007 riteneva fosse giunto il tempo di rivolgersi, tra l’altro, «a forme concordate di uso delle riserve delle banche centrali, in oro e in valuta, eccedenti quanto richiesto dal concerto con la Bce per la difesa dell’euro». Come riporta un dispaccio della Reuters dell’epoca Romano Prodi desiderava aprire un «dibattito serio» sulla cosa, il suo ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, disse chiaro e tondo che l’uso delle riserve «non può essere un tabù». Come passa il tempo: un leghista come Roberto Calderoli si chiese se il governo agisse «per malafede o per ignoranza». Lo sentisse oggi Borghi... A metterci una pietra sopra fu Mario Draghi, allora governatore di Bankitalia. In Senato spiegò che «come confermato dalla Bce ogni intervento dei governi» che incida sulle riserve «costituisce una violazione dell’indipendenza delle banche. La Bce ritiene che l’indipendenza di Bankitalia possa essere messa a repentaglio se non c’è l’autonomia finanziaria». Difficile abbia cambiato idea.
Franscesco Spini