Corriere della Sera, 11 febbraio 2019
Possiamo fidarci della rete 5G cinese?
Cagliari diventerà la prima smart city italiana grazie alle reti integrate, ma soprattutto grazie alla tecnologia Huawei. Parliamo del colosso cinese che dopo aver investito 20 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, oggi è diventato leader mondiale nell’infrastruttura 5G, e la sta costruendo in tutti i Paesi. Vuol dire rete ad altissima velocità per la comunicazione mobile, connessione a droni, sensori, auto a guida autonoma, oltre che per la digitalizzazione di tutte le infrastrutture pubbliche: monitoraggio di ospedali, controllo del traffico, gestione dei rifiuti, riscaldamento e sicurezza.
La Cina, in questo campo, ha di fatto superato gli Stati Uniti. Secondo gli americani, però, l’hardware prodotto dai colossi asiatici delle comunicazioni Huawei e Zte potrebbe essere soggetto a manipolazioni del governo. Di accertato c’è il fatto che le aziende cinesi, anche quelle private, devono avere un rappresentante del partito comunista al proprio interno e sono obbligate a rispondere al governo di Pechino. Il primo dicembre scorso, la direttrice finanziaria di Huawei Meng Wanzhou, figlia del fondatore Ren Zhengfei, è stata arrestata in Canada: gli Stati Uniti ne hanno chiesto l’estradizione e, a fine gennaio, hanno incriminato l’azienda per violazione delle sanzioni americane contro l’Iran e furto di segreti tecnologici. In sostanza, gli americani accusano l’azienda di Shenzhen di spionaggio. Zhengfei nega e prove concrete al momento non ci sono. Quello che è chiaro è che la guerra per la gestione dell’infrastruttura strategica del futuro è partita.
I timori sulla societàTrump sta scatenando una campagna contro Huawei e, mentre negli Stati Uniti da sempre è vietato l’uso della tecnologia cinese per le infrastrutture strategiche, altri Paesi ne stanno mettendo in dubbio la sicurezza. Australia e Nuova Zelanda hanno bloccato l’accesso alla tecnologia 5G cinese; il Regno Unito ha trovato falle nel sistema, ha chiesto garanzie tecniche anti-spionaggio e anti-blocco che però tardano ad arrivare e ormai sono ai ferri corti; il Giappone ha sospeso ogni acquisto da Huawei per le sue aziende pubbliche; la Germania ha chiesto all’azienda cinese garanzie per permetterle di partecipare all’asta 5G di marzo, mentre Angela Merkel ha espresso il timore che la società possa passare dati sensibili al governo cinese. Nel frattempo, a novembre l’Unione europea ha votato una legge che prevede uno screening degli investimenti diretti stranieri che possano mettere in pericolo la sicurezza, e il 7 gennaio l’università inglese di Oxford ha sospeso l’accettazione di fondi per la ricerca e donazioni filantropiche dal gruppo cinese.
Gli avvertimenti del CopasirL’ Italia, nonostante gli avvertimenti ricevuti dal Copasir negli ultimi dieci anni, ha invece messo le sue reti in mano all’azienda cinese, che offriva prodotti a costi estremamente bassi. «Già nel 2009 le agenzie di cybersicurezza mondiali avevano bandito Huawei dagli appalti per le infrastrutture critiche, mentre in Italia stava stringendo accordi con Telecom per sostituire Cisco», spiega al Corriere della Sera Giuseppe Esposito, ex vicepresidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. «Mentre il prodotto di Cisco si sapeva com’era fatto, con la quantità di produzione messa in piedi da Hauwei nessuno ha mai potuto controllare l’effettiva sicurezza». Persino la Panic Room di Palazzo Chigi, la stanza di massima sicurezza della presidenza del Consiglio, «passa attraverso due grandi nodi: il primo con i router di Tim, e quindi è fatto da Huawei», afferma Esposito.
Un mercato su cui investireIn Italia Huawei è attiva dal 2004, detiene un terzo del mercato degli smartphone e fattura 1,5 miliardi di euro. Il gruppo considera il nostro un Paese strategico in cui investire: 162 milioni di euro solo nel 2016. Oggi sta sviluppando la rete 5G a Milano e nell’area Bari-Matera, dove l’investimento è di 60 milioni; sta lavorando con 38 partner industriali e istituzionali per realizzare 41 progetti che vanno dalla sanità alla sicurezza, dalla sorveglianza all’energia, dai trasporti alle smart city; vanta accordi con Terna, Enel, Fastweb, Ferrovie dello Stato, Telecom e fornisce tecnologia a tutti i 16 mila uffici postali italiani. Finanzia anche due grandi centri di ricerca: uno a Segrate, specializzato sulle microonde alla base della tecnologia 5G, l’altro, inaugurato nel 2016, a Pula, in Sardegna dove ha investito 20 milioni per lo sviluppo delle smart city. Nel centro è operativo il primo super computer europeo per la gestione e il controllo di tutti i servizi del Comune di Cagliari: l’obiettivo è quello di trasformare la Sardegna nella prima «smart region». Fonti di intelligence riferiscono che la Sardegna è anche un osservatorio prezioso, ospitando basi militari ed essendo il luogo in cui si esercitano tutti i reparti Nato europei.
Le opposte strategieL’Italia quindi lascia porte aperte al colosso cinese, mentre molti Paesi occidentali si stanno ponendo un problema: possiamo permetterci di lasciare tutti i nostri dati in gestione a un Paese non democratico? Per ottenerli, infatti, al governo di Pechino non serve passare dai vertici di un’azienda come Huawei, ma basta chiedere a un ingegnere tre livelli sotto la catena di comando di aprire una porta nel sistema. È esattamente quello che hanno sempre fatto gli americani, ed è per questo che hanno lanciato l’allarme. La differenza è che «spiano» all’interno di un’alleanza. «I cinesi sono la massima espressione della visione di lungo periodo, mentre l’Italia è la rappresentazione della politica del domani e deve capire quali sono gli asset chiave che il Paese deve gestire in nome di una convenienza di lunghissimo periodo», ci spiega il professor Giuliano Noci, ordinario di strategia e marketing al Politecnico di Milano e prorettore del Polo territoriale cinese.
Opportunità e regoleHuawei e Zte, oltretutto, investono molto in Italia anche perché il nostro Paese è debole sulla normativa 5G e, offrendo in cambio posti di lavoro, possono incidere sulla stesura delle regolamentazioni. «Se vogliamo che la Cina sia per noi una fonte di opportunità, dobbiamo muoverci urgentemente in due ambiti», afferma il professor Giovanni Andornino, specializzato in politica interna ed estera della Cina presso l’Università di Torino. «A livello nazionale serve reclutare giovani funzionari e manager esperti di Cina da inserire in tutti gli snodi-chiave dello Stato; a livello europeo, invece, l’Italia non potrà mai negoziare da pari con i cinesi. Bruxelles, invece, ha le leve per smuovere Pechino ed è proprio lì che l’Italia deve fare anzitutto la sua politica cinese». Che significa dettare qualche condizione, anziché subirle convinti magari di aver fatto un buon affare. Mettendo in conto che una eventuale esclusione del competitor cinese dalle gare consegna il mercato a Nokia ed Ericsson, che alzeranno i prezzi.