Corriere della Sera, 11 febbraio 2019
Intervista a uno dei negoziatori talebani
KABUL Il ritiro di metà dei 14.000 soldati americani inizierà il 15 febbraio. Quindi dai primi di aprile, partirà il negoziato per il ritiro dell’altra metà e con loro anche quello degli altri contingenti arrivati in Afghanistan con la Nato nel 2002. «Ovvio, anche gli italiani. Nessuno può immaginare che gli italiani possano restare qui se gli americani se ne vanno». Infine i talebani torneranno in forze in tutto il Paese, capitale inclusa, con la speranza che le elezioni presidenziali previste il 20 luglio vengano cancellate, creando magari un governo talebano ad interim, «perché comunque è ovvio che noi rappresentiamo la maggioranza e vinceremmo se non ci fossero i consueti brogli elettorali». Ad ascoltare i desiderata dei talebani coinvolti nei negoziati con gli americani a Dubai non è difficile comprendere le inquietudini di chi in Afghanistan denuncia l’imminenza del ritorno alla teocrazia islamica precedente il 2001. «Le donne andranno a scuola, frequenteranno l’università, ma sempre nel pieno rispetto della legge coranica, che negli ultimi anni è stata troppo spesso violata», spiega il 46enne Nazar Mutmain, che ai tempi del Mullah Omar fu capo dell’ufficio informazioni nella provincia di Helmand, la loro roccaforte storica, e oggi funge da loro intellettuale organico a Kabul. Pochi giorni fa ha fatto parte della delegazione di dieci talebani ai colloqui di Mosca dove hanno dialogato con una quarantina di esponenti della società civile non legati al governo di Ashraf Ghani.
Il rappresentante americano Zalmay Khalizad sostiene che non ci potrà essere ritiro senza pace, la quale va negoziata tra talebani e governo Ghani. Siete pronti?
«I talebani non si fidano di Ghani. È un corrotto che mira al potere personale. Sarebbe meglio creare un governo transitorio senza di lui. Allora noi parleremo con altri esponenti della società civile come abbiamo fatto a Mosca».
Per esempio con l’ex presidente Karzai, che era a Mosca, ma con cui non volevate trattare quando era al potere e lo accusavate di essere burattino degli americani?
«Karzai pare cambiato, si offre come mediatore e paciere. Ma il cambiamento principale è la determinazione con cui il presidente Trump lavora ora per ritirare le sue truppe, più di Bush e Obama. Noi siamo qui per aiutarlo. Gli renderemo facile l’uscita dall’Afghanistan. Ma se non rispetta gli accordi, tutto si ferma».
Davvero non darete asilo a Isis, come invece faceste con Al Qaeda nel passato?
«Certo che no. Ma la comunità internazionale e gli Stati Uniti questa volta devono ascoltarci e aiutarci, non come negli anni 90 quando rifiutarono ogni contatto».
Le donne temono di trovare le scuole chiuse.
«Non accadrà. Negli anni Novanta il Paese era in ginocchio, le scuole erano spesso chiuse anche per i bambini. Nel futuro potranno studiare liberamente, però non permetteremo le classi miste. Programmi, modi di vestire, comportamenti dovranno rispettare i dettami dell’Islam oltre le nostre tradizioni nazionali. Lo stesso varrà per i media. Per esempio saranno vietati programmi sulla blasfemia, l’omosessualità tra maschi come tra femmine».
Sta già enunciando le regole della censura?
«Non si tratta di censura, solo di rispetto legale delle nostre tradizioni. Già oggi un giornalista che predica lo Stato laico o l’abiura all’Islam per un musulmano merita la pena di morte. Coi talebani verrà rigorosamente messa in pratica. Non saremo certo meno rigidi della legge vigente».