Il Messaggero, 11 febbraio 2019
Storia di Eugene Cernan, l’ultimo uomo sulla Luna (intervista a Paolo Attivissimo)
Per anni è rimasto negli scaffali dei libri mai tradotti in italiano. The Last man on the Moon (L’ultimo uomo sulla Luna) dell’astronauta Eugene Cernan, scomparso nel gennaio del 2017, colui che ha messo il cartello stop alle passeggiate sul nostro satellite naturale, è ora finalmente disponibile. A curarlo sono stati Paolo Attivissimo e Diego Meozzi per le edizioni Carta Bianca. Attivissimo, in particolare, cacciatore di bufale ed esperto della disinformazione, ne ha curato la terminologia tecnico spaziale, mentre Meozzi ha cercato di rendere comprensibili i molti riferimenti culturali statunitensi.
Attivissimo, è stato difficile curare un volume del genere?
«Diciamo pure che la prosa di Eugene Cernan è ricca, schietta e potente, con molti riferimenti culturali nazionali che non sempre hanno un equivalente italiano. Non è stato facile, ma il lavoro di Diego Meozzi è stato fondamentale. Alle difficoltà di traduzione consuete, in questo caso, si sono aggiunte quelle della terminologia tecnica. È stata comunque una sfida entusiasmante che mi ha dato l’occasione di riascoltare, con la memoria, la voce dell’ultimo uomo sulla Luna e di rendergli onore».
Da quale episodio comincia il racconto?
«Formalmente parte da The Fire, L’Incendio per antonomasia per chiunque lavori alla Nasa, anche oggi: il rogo della capsula spaziale Apollo dentro la quale perirono tre suoi colleghi e amici astronauti, Grissom, White e Chaffee, il 27 gennaio 1967, durante quello che doveva essere un collaudo di routine a terra. Mancavano solo due anni alla scadenza definita dal presidente Kennedy prima di essere assassinato, e il veicolo spaziale era un disastro. La tragedia obbligò la Nasa a riprogettare tutto daccapo. Ci riuscì, ma quelle tre vite, insieme alle altre perse per l’esplorazione spaziale, furono un sacrificio indelebile».
Due parole su Eugene Cernan....
«Una carriera formidabile: pilota di caccia per la Marina statunitense, ingegnere aeronautico, astronauta con tre voli spaziali, di cui due verso la Luna. Come persona, altrettanto formidabile: un grande narratore, capace di incantare con i suoi modi d’altri tempi, a volte un po’ dissonanti rispetto a quelli di oggi, con quei suoi valori semplici ma profondi e la sua incontenibile, giocosa galanteria. Figlio della Guerra Fredda e di un’epoca in cui gli slogan positivi e patriottici si potevano dichiarare senza esitazioni e imbarazzi».
È vero che nacque in una fattoria dove mancava perfino la corrente elettrica?
«Sì. Era il 1934 e nell’Illinois rurale era normale. La sua vita era costellata di contrasti come questo: da una fattoria senza elettricità alla Nasa. Cernan sottolineava spesso l’enormità del progresso che aveva vissuto e l’ottimismo che questo gli infondeva. Se uno come me è riuscito ad andare sulla Luna, diceva, cos’è che non puoi fare tu?»
Lei anni fa lo ha conosciuto personalmente, che idea si è fatto dell’uomo e dell’astronauta ?
«Se dovessi scegliere un solo aggettivo: incrollabile. Una di quelle persone che se si impegna a fare una cosa, la farà sicuramente e che è assolutamente affidabile. Incrollabile anche nella sua fede religiosa, alla quale si è affidato tante volte. Perché la tecnologia è una bella cosa, ma quando sali in cima a 3 mila tonnellate di propellente altamente infiammabile e le accendi hai bisogno tutto l’aiuto, naturale e soprannaturale. Valore, onore, patria non si discutevano. Però la battuta tagliente che ti spiazzava era sempre in agguato: qualche parolaccia gli scappò anche durante le missioni spaziali, in diretta mondiale, e le sue ultime parole segrete sulla Luna furono, per così dire, colorite. A me è rimasta impressa soprattutto la sua energia, la sua voglia di condividere con tutti la propria esperienza unica e di incoraggiare a osare imprese potenti».
Il dettaglio umano di Cernan sulla Luna.
«Verso la fine della missione, Cernan tracciò nella polvere lunare le iniziali di sua figlia Tracy. Nessuno le vedrà mai, probabilmente, ma resteranno lì per millenni, e lui e Tracy lo sanno ed è questo che conta, per loro».
Lei è un cosiddetto debunker, come si combatte il fenomeno delle fake news?
«Con fatica! Gli strumenti ci sono, e sono a disposizione di tutti, ma c’è poca voglia di usarli. Io e i miei colleghi cerchiamo di sfruttarli e di offrirli il più possibile e di spiegare i meccanismi tecnici, politici e commerciali, spesso per nulla intuitivi, che stanno alla base dell’esplosione del fenomeno della malinformazione. Credo che sia un dovere civico tentare di contrastare questa marea di panzane che ci distrae dai veri problemi e ci fa fare scelte spesso disastrose e autolesioniste».
Come viene trattata la scienza sulla stampa?
«Purtroppo sono tanti ad occuparsi di scienza, pochi quelli che lo fanno con competenza. È assurdo, visto che viviamo in una società che dipende dalla scienza e dalla tecnologia. Ma la colpa è anche di chi affida incarichi a persone non preparate e pretende poi che li svolgano senza risorse e in fretta».
Cosa consiglierebbe ai suoi colleghi della carta stampata che debbono rincorrere i tempi dei social?
«Primo, imparare bene l’inglese: tutta la comunicazione moderna è in questa lingua e non conoscerla significa tagliarsi fuori in partenza dalla conversazione. Secondo: imparare a usare gli strumenti di Internet, che offrono possibilità di ricerca e di verifica straordinarie».
Due parole a chi ancora non crede che l’uomo sia sbarcato sulla Luna
«Le faccio dire direttamente da Gene Cernan: Io là ci sono stato e ho lasciato le mie orme, e questo nessuno me lo può togliere. Credete quello che volete: non cambierà i fatti».