11 febbraio 2019
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Biografia di Franco Zeffirelli
Franco Zeffirelli (Gianfranco Corsi Zeffirelli), nato a Firenze il 12 febbraio 1923 (96 anni). Regista cinematografico, teatrale e lirico. Sceneggiatore. Politico. «Una figura rinascimentale che, in 70 anni di attività, ha attraversato tutte le discipline dello spettacolo» (Valerio Cappelli). «Chi è il suo maestro? “Dio, anche se sono indegno di lui”» (ad Alain Elkann) • Secondo gli studi genealogici di Alessandro Vezzosi e Agnese Sabato, è imparentato per parte paterna con Leonardo da Vinci. «Zeffirelli è infatti figlio di Ottorino Corsi (nato e vissuto a Vinci e successivamente trasferitosi a Firenze), nipote di Olinto Corsi, uno dei personaggi più noti della Vinci di fine Ottocento. Secondo la ricostruzione dell’albero genealogico da parte di Vezzosi e Sabato, la famiglia Corsi si è imparentata con la famiglia Da Vinci nel 1794 grazie al matrimonio fra Michelangelo di Tommaso Corsi e Teresa Alessandra Giovanna di Ser Antonio Giuseppe da Vinci, diretta discendente di Ser Piero, padre di Leonardo» (Luisa De Montis) • Figlio naturale del commerciante di stoffe Ottorino Corsi, all’epoca sposato con altra donna, e della sarta Alaide Garosi Cipriani, rimasta incinta quando era ancora sposata a un avvocato gravemente malato e divenuta vedova durante la gravidanza. «“Ha tenuto testa a una città intera. Tutti lo sapevano: il bimbo nel suo grembo non poteva essere del marito, che si stava spegnendo in sanatorio. Seguì il feretro col pancione, vedova incinta di un altro uomo: si può solo immaginare lo scandalo. […] Infatti sono ‘figlio di ignoti’, N.N. (nescio nomen, ndr). Ma c’era una regola: i cognomi degli illegittimi venivano scelti a partire da una lettera, a rotazione. In quei giorni era il momento della ‘Z’. Cosi mia madre suggerì che mi chiamassero ‘Zeffiretti’, da un’aria di Mozart da lei molto amata (dell’Idomeneo, ndr). Nella trascrizione, l’impiegato fece un errore, mise due ‘l’ al posto delle ‘t’. Così io divenni Zeffirelli. E lo sono rimasto. Un cognome unico al mondo”. Non potendo stare con sua madre, appena nato viene dato a balia. “Fui affidato ad Ersilia Innocenti, una contadina gentile che viveva in un paesino poco lontano da Firenze. Rimasi con lei per quasi due anni. […] Nel 1925 mia madre mi riprese con sé. Per lei cominciarono i guai. La gente la boicottava, nessuno voleva farsi fare i vestiti in un negozio così chiacchierato. Perse la clientela, dovette smettere di lavorare. Era anche il tempo della grande crisi… Tutto intorno a lei si stava sfasciando. […] Andammo a Milano, dove abitava la figlia maggiore, Adriana. Penso che mia madre volesse ricominciare da capo, tentare di rifarsi una vita. Ma era già malata di tubercolosi. Dopo pochi mesi morì: era il 1929, io avevo sei anni. […] Ero rimasto davvero solo. Per qualche tempo mia sorella mi tenne con sé e suo marito. Ma lui non mi voleva”. Così è rientrato a Firenze. “Ero figlio di nessuno, fui portato all’Istituto degli innocenti. […] Dopo qualche mese fu zia Lide a prendermi. Lei non era riuscita ad avere figli: viveva con un uomo, anche lui già sposato, zio Gustavo, ufficiale di marina, padre di altri due ragazzi. Zia Lide e zio Gustavo mi accolsero a casa loro, un’altra situazione atipica e un po’ scandalosa. Pensandoci bene, sono sempre vissuto in mezzo a qualcosa che il resto delle persone non considerava ‘normale’. […] Mio padre mi ha sempre fatto un po’ paura. Aveva più amanti che capelli in testa, è rimasto per tutta la vita un gran puttaniere. […] Ricordo che, quando dovevo incontrarlo, il sabato pomeriggio, mia zia mi vestiva bene. Per me era un signore che alla fine della visita mi lasciava una moneta e se ne andava. Non riuscivo a chiamarlo ‘babbo’, non sapevo cosa dirgli. Il suo mondo mi era estraneo”. Però alla fine le ha dato il suo cognome. “Mi riconobbe tardi, dopo la morte di sua moglie, quando le mie zie lo convinsero che doveva pensare al mio futuro. Avevo 19 anni, non mi sentivo suo erede. Mi ritrovai fra le mani questo cognome, Corsi, ma non sapevo bene cosa farmene. Era stata mia madre ad inventare Zeffirelli, non volevo separarmene. Ma la legge diceva un’altra cosa. Più tardi riuscii a farmi aggiungere sul passaporto ‘in arte Zeffirelli’”» (Daniela Cavini). «All’oratorio, un frate lo sbaciucchia e lo molesta: […] “Si rilassò, dopo aver soddisfatto il suo desiderio inconfessato con il semplice contatto del mio corpo… Poi però corse al suo inginocchiatoio piangendo calde lacrime di pentimento”» (Giuseppina Manin). Tra le figure più importanti per la sua formazione giovanile, «padre Coiro, priore di San Marco, e un professore di Diritto romano che frequentava il convento, Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso». «“Mi nutrivo di musica e di arte. Mi iscrissi al liceo artistico e poi alla facoltà di Architettura. Durante l’ultimo anno dell’università, a causa della guerra, scappai in montagna. Entrai in una formazione partigiana e mi resi utile come interprete. Conoscevo bene l’inglese”. Come lo aveva imparato? “Mio padre voleva che mi trasferissi a Londra. Amavo quella lingua. Ero affascinato dalle vecchie signore inglesi che vivevano a Firenze, come fossero nel mondo magico e irripetibile di Shangri-La. Credo di aver imparato a vivere e desiderare questa città attraverso gli occhi degli inglesi. […] Ciò che a un certo punto avvertii fu il rigetto del fascismo. Improvvisamente vidi nel Duce un pagliaccio, e me ne resi conto con dolore, perché fin da bambini eravamo stati nutriti con quel latte lì. Scoprire che era acido fu una grande delusione. Tutto questo agevolò la mia scelta partigiana. Vidi cose terribili, sentii l’orrore della guerra e capii quanta gioventù fu sacrificata. Ma al tempo stesso si aprì un capitolo straordinario della mia vita”. Cosa accadde? “Scoprii l’amore. Feci la mia conversione sessuale lassù, in montagna. In quegli aspri momenti con la morte che incombeva mi si rivelò l’uomo in tutta la sua straordinaria bellezza. Fu una reazione istintiva, un risveglio, un’attrazione spontanea. Non era solo innamoramento per un corpo maschile, ma sentire una diversa spiritualità”» (Antonio Gnoli). «Andai in montagna da cattolico liberale e rischiai di essere ammazzato dai comunisti. Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano». Finita la guerra, «biondo, bello e di gentile aspetto, Zeffirelli piace, e molto. Persino a un uomo corteggiato e inaccessibile come Visconti. Alla Pergola di Firenze, dove sta allestendo una pièce, Luchino nota quel giovane aspirante scenografo dagli occhi azzurri e l’aria intraprendente. Dispotico e autoritario, il regista cerca un’attrice anziana capace di essere in scena realisticamente pazza. Franco, memore di una signora incontrata in una casa di riposo, gli trova una pazza vera. Luchino va in estasi. È l’inizio di una collaborazione e di un amore» (Manin). «Visconti è stato il mio mentore, il mio maestro. Ho iniziato proprio con lui il mio percorso di scenografo nel Troilo e Cressida, allestito nel Giardino di Boboli. Un progetto enorme e con un cast eccezionale. C’erano tutti gli attori del teatro italiano: Paolo Stoppa, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Franco Interlenghi, Rina Morelli, Giorgio Albertazzi al suo esordio. Una grande esperienza che ha determinato il mio futuro» (a Riccardo De Palo). «Zeffirelli diventò suo aiuto regista e collaborò, fra l’altro, alla produzione di capolavori cinematografici come La terra trema e Senso: “Per me Luchino era il modello di tutto quel che conta davvero, un uomo complesso, autoritario e umile, egoista e generoso, folle e saggio. Un tormentato Don Giovanni e un aristocratico dal sesso facile”» (Riccardo Lenzi). «Il legame con Visconti gli spalanca tutte le porte. La prima volta che va a Parigi arriva con tre lettere in tasca: per Cocteau, Marais e Coco Chanel. La grande Mademoiselle prende a cuore il suo pupillo e, prima che lui lasci la capitale, gli regala 12 disegni, 12 ballerine firmate Matisse. “Le presi per riproduzioni, invece erano tutti originali. Mi hanno salvato nei periodi di magra”» (Manin). «Ad Anna Magnani deve invece il suo esordio cinematografico nell’estemporanea parte dell’attore, nel film L’onorevole Angelina. “Mi trovai su quel set nell’estate del 1947 perché mio cugino mi incaricò di lavorare per la pubblicità di quella produzione”, ricorda Zeffirelli. “In quel momento la grande attrice era infuriata con il regista Luigi Zampa perché aveva affidato il ruolo del giovane protagonista a un raccomandato”. “Guàrdati in giro, il mondo è pieno di facce nuove”, disse la Magnani a Zampa, “non è questa la regola del vostro cinema del neorealismo, per cui chiunque può fare l’attore?”. Mentre gridava il suo sguardo si posò su Zeffirelli. “Quello stronzetto là, vedi se sa spiccicare due parole”, e si rifugiò in camerino. Zeffirelli ricorda ancora: “Dopo il provino, Zampa sembrò deluso”. Tornata la Magnani, sentenziò che quel ragazzo come look non era male, ma non era naturale: sapeva infatti recitare. Al che, la Magnani s’adirò di nuovo: “Verismo del cavolo. Tanto, alla fine, il cinema lo facciamo noi attori”. E riuscì a farlo assumere» (Lenzi). «Lei è stato […] anche aiuto regista di Francesco Rosi, Antonio Pietrangeli… deve molto al cinema. Ma il suo grande amore è stato la lirica. Che ricordo ha di quella prima volta alla Scala? “Era il 1953 e fui chiamato per realizzare scene e costumi de L’italiana in Algeri con Giulietta Simionato; il regista Corrado Pavolini mi diede carta bianca. Mi appropriai dei sofisticati meccanismi che la Scala possedeva e misi insieme uno spettacolo vivacissimo, con rapidi cambiamenti di scena e sempre di grande effetto. Le mura di Algeri si sollevavano per rivelare la fortezza e dentro di essa il palazzo del sultano, un raffinato e sorprendente padiglione moresco. Una boccata di aria fresca dopo le pesanti produzioni a cui era abituato il pubblico della Scala”» (De Palo). Agli anni Cinquanta risalgono anche i suoi esordi da regista: nel 1951 debuttò infatti nel teatro di prosa con Lulù di Carlo Bertolazzi, nel 1953 nella regia lirica con La Cenerentola di Rossini e nel 1957 nella regia cinematografica con la commedia leggera Camping («un’escursione innocente, un divertimento inoffensivo»), interpretata da Nino Manfredi, Marisa Allasio e Paolo Ferrari e passata quasi inosservata. In seguito, però, «decide di lavorare per il cinema utilizzando la sua esperienza professionale maturata come aiuto-regista di Visconti ai tempi di La terra trema, Bellissima e Senso e come regista teatrale e d’opera lirica di grande successo internazionale dagli anni Cinquanta. Della lezione di Visconti rimane indubbiamente in Zeffirelli il gusto per lo sfarzo della messa in scena e per il rigore con cui lo spettacolo è dominato, e, da ultimo, la scelta molto tradizionale di costruzione scenografica e concezione recitativa. Come a Visconti, anche a Zeffirelli interessa soprattutto approfondire un’idea classica di regia e di direzione d’attori che possa egualmente funzionare per lo schermo e il palcoscenico e che si fonda su un’ottimizzazione di tutti gli elementi dello spettacolo, dalle scenografie ai costumi, alla recitazione, all’illuminazione, alla costruzione visiva della scena» (Gian Piero Brunetta). Nacquero allora, nel segno di Shakespeare, i suoi primi grandi film: La bisbetica domata (1967), con due attori affermati come Liz Taylor e Richard Burton, e il capolavoro Romeo e Giulietta (1968), con i giovanissimi interpreti Leonard Whiting e Olivia Hussey. «La versione teatrale di Franco Zeffirelli all’Old Vic, nel 1960, fu accolta da Kenneth Tynan come “una rivelazione e forse una rivoluzione”: in quel memorabile spettacolo, i due amanti scespiriani recuperavano polemicamente la loro età adolescenziale, e la tragedia ne usciva vivificata. In Romeo and Juliet il regista vede soprattutto un contrasto di generazioni, la lotta dei giovani per emanciparsi dalla tirannia degli anziani. […] L’impostazione rimane valida anche nel film» (Tullio Kezich). «Ricordo con grande piacere che, quando il film uscì, i critici inglesi scrissero: “L’Inghilterra ha dovuto aspettare un italiano per capire come rappresentare Shakespeare!”». «L’accettazione delle regole per la confezione di un buon prodotto spettacolare, raffinato figurativamente e ineccepibile dal punto di vista della regia, di sicuro effetto, viene confermata da tutta la produzione degli anni Settanta, che passa attraverso grandi temi religiosi per approdare finalmente a storie più vicine ai giorni nostri (ma sempre fondate su modelli metastorici). Nell’ultima produzione le storie sono raccontate da un regista che vuoi dimostrare apertamente come il suo processo di americanizzazione è del tutto compiuto, senza che siano peraltro snaturati i suoi caratteri originari. I titoli sono: Fratello sole, sorella luna (1973), su san Francesco d’Assisi, Gesù di Nazareth (1977), The Champ (II campione, 1979), Endless Love (Amore senza fine, 1981) e II giovane Toscanini. Nel 1982 dirige una versione cinematografica della Traviata con un cast in cui brillano Teresa Stratas e Placido Domingo, nel 1987 porta sullo schermo Otello. Nel 1994 dirige Storia di una capinera da Verga e nel 1995 Jane Eyre da Emily Brontë, opere in cui di colpo il regista sembra trovare una vena narrativa quasi intimistica non condizionata dal palcoscenico, unita a una toccante e inedita capacità di comunicare il senso di solitudine e di infelicità che può accompagnare per ragioni interiori o esterne il breve percorso dell’adolescenza. […] Da un certo momento inizia a raccontare storie che non attingono più a fonti letterarie o teatrali, e alla fine degli anni Novanta riesce a realizzare Un tè con Mussolini, accurata rievocazione della propria infanzia e insieme di un momento cruciale della storia d’Italia alla vigilia e durante la Seconda guerra mondiale: è una delle sue opere più felici, in cui riesce a dispiegare al meglio le sue capacità registiche. Egualmente coinvolto sul piano personale e carico di passione il film del 2002 dedicato alla ricostruzione dell’ultimo anno di vita di Maria Callas (Callas Forever)» (Brunetta). Negli ultimi anni Zeffirelli si è dedicato principalmente alla regia lirica, portando i suoi allestimenti nei teatri più prestigiosi d’Italia e del mondo (particolarmente numerosi quelli di Aida: “La mia versione preferita resta quella in miniatura fatta per Busseto nel 2001”), e alla costituzione del Centro internazionale per le arti dello spettacolo Franco Zeffirelli («in parte museo e in parte scuola di regia e scenografia»), finalmente aperto nel 2017 a Firenze nel centralissimo ex tribunale di piazza San Firenze («l’unico monumento barocco della città»), «che accoglie disegni, bozzetti, copioni, sceneggiature, libretti d’opera, foto, filmati. […] Un archivio per il quale "ho lottato tanto" perché non si disperdesse» (Paola Catani). Nel novembre 2018, nonostante sia da tempo fisicamente debilitato e costretto in sedia a rotelle, Zeffirelli ha annunciato che, in stretta collaborazione con il suo fidato assistente Stefano Trespidi, curerà l’allestimento del Rigoletto che inaugurerà la stagione lirica della Royal Opera House di Muscat, in Oman, il 17 settembre 2020. «Sono solo un povero vecchio, ma non ho intenzione di mollare» • «Conservatore e anticonformista, viene considerato un tradizionalista. Ma, se si pensa a Lo frate ’nnamorato di Pergolesi alla Piccola Scala con la juta sgranata […] che realizzò senza soldi e in fretta e furia dopo la defezione di Eduardo… “Anche l’Amleto con Albertazzi e Dopo la caduta avevano il segno dell’innovazione. Si è passatisti se si conduce una ricerca storica e si servono le intenzioni dell’autore? Lo sono stato per la ganga culturale di sinistra, a cui non appartenevo”. […] È nell’opera, in quegli spettacoli carichi di tinte come le tele del Tiepolo, che la sua stoffa si esalta. Si può dire che La bohème scaligera del 1963, con i due piani sovrastanti dove si incontrano la folla del Quartiere Latino e i frequentatori del Café Momus, è lo spettacolo della sua vita? “Penso di sì. Fu Karajan a impormi, dopo aver visto la mia regia del Romeo e Giulietta all’Old Vic di Londra. Disse che nessuno sapeva raccontare meglio di me l’amore e le tragedie giovanili. Ripresi quella Bohème con Carlos Kleiber, che considero il più grande”» (Cappelli). «Diventato regista di primo piano, ricevuto dalla regina Elisabetta e da Paolo VI, da Hillary Clinton e Bob Kennedy, diventa amico di Liz Taylor e Burton, di Laurence Olivier e Joan Plowright. Ma soprattutto di Maria. Callas, adorata. Forse l’unica donna di cui un po’ si innamora. “La conobbi che era grassa e goffa, un anno dopo aveva perso 30 chili ed era diventata una donna di insuperabile fascino. Una trasformazione che ha segnato il mondo della lirica, che da allora si può datare ‘a.C.’ e ‘d.C.’, prima e dopo Callas”» (Manin). «Con Maria abbiamo realizzato sei produzioni memorabili, con la Taylor sia La bisbetica domata che Il giovane Toscanini, e con Olivier, all’Old Vic di Londra, i due spettacoli di Eduardo De Filippo: Sabato, domenica e lunedì e Filumena Marturano» • Celibe. Omosessuale dichiarato, rifiuta per ragioni etimologiche la definizione «gay», «frutto della cultura puritana, una maniera stupida di chiamare gli omosessuali, per indicarli come fossero dei pazzerelli». «L’idea che all’omosessualità corrisponda una gioia forzata, da arcobaleno obbligato e da circo permanente, non mi ha mai persuaso. Non mi sentivo di appartenere a nessun movimento, e sessualmente ho sempre fatto le cose che preferivo». Particolarmente noto il suo rapporto sentimentale e professionale con Luchino Visconti, con cui convisse a lungo; la relazione, oltre che per le simpatie comuniste di Visconti, s’incrinò quando «ci fu un furto in casa Visconti, e Luchino fece chiamare tutti a deporre di fronte alle forze di pubblica sicurezza. La servitù, i parenti stretti, gli amici cari. Mi offesi molto» • Due figli adottati da adulti, suoi collaboratori. «Pippo e Luciano hanno il mio nome, li ho tirati su con i problemi che tutti i figli creano. Dei figli “veri” non potrebbero essere migliori di loro» • Cattolico, profondamente credente. «La fede è un dono, ne sono certo. L’ho avuto e devo tenerlo stretto». Di fede sono infatti pervasi i suoi Fratello sole, sorella luna e Gesù di Nazareth, quest’ultimo particolarmente apprezzato dalla Chiesa. «Paolo VI, nel 1977, dopo aver visto il mio Gesù di Nazareth, mi chiese che cosa la Chiesa avrebbe potuto fare per me. Gli risposi: vorrei che quest’opera arrivasse anche in Russia. Lui mi disse profeticamente: "Abbia fede: presto sul Cremlino sventoleranno le bandiere della Madonna al posto di quelle rosse". Quando, nel 1991, vidi in tv le bandiere rosse sovietiche ammainate dalle torri del Cremlino, e il bianco, l’azzurro e il rosso, i colori della precedente bandiera russa, sventolare sopra le cupole di Mosca, pensai che quei colori erano quelli dell’Immacolata Concezione: la Vergine bianca e azzurra che schiaccia il rosso del demonio» • Fervente anticomunista. «Il conformismo, il politicamente corretto, l’opportunismo, ecco la negazione della creatività. Il conformismo della sinistra è orrendo, vomitoso». «L’odio dei comunisti mi ha solo spinto a fare di più e meglio. Anche se l’ho pagato caro. Non solo con pregiudizi e ostracismi di tutti i tipi – non a caso ho svolto la mia carriera soprattutto all’estero. Contro di me prepararono perfino un attentato. Erano gli anni ’70. Doveva sembrare un incidente automobilistico. La scampai solo perché un amico mi avvertì in tempo». Antico e fedele amico di Silvio Berlusconi, dal 1994 al 2001 fu senatore per Forza Italia. «Volevo dare il buon esempio della cultura al servizio della società. Non erano i tempi, come non lo sono nemmeno oggi» • Appassionato tifoso della Fiorentina (e anti-juventino). «Per la Fiorentina sono anche andato in coma. Era l’anno dello scudetto, ero sulla macchina di Gina Lollobrigida e stavamo andando a vedere la partita con il Cagliari. Lei guidava come una matta e avemmo un incidente. Stetti a letto per mesi. Appena mi rimisi in piedi, corsi di nuovo allo stadio: appena in tempo per festeggiare il titolo» • Noto polemista. «Kezich disse che ha un sosia come Goljadkin nel romanzo di Dostoevskij: ovunque vada a coprirsi di gloria, spunta il “doppio” che lo mette in cattiva luce. […] Ma pochi sanno della sua generosità, di quando ospitò per mesi a casa sua il direttore di palcoscenico del Met di New York in pensione, per dirne una» (Cappelli). «Mi sono incazzato spesso e spessissimo ho fatto incazzare gli altri. A volte, quando sono caduto in errore, mi è capitato persino di chiedere scusa» • Grande amante dei cani. «L’affetto che danno è impagabile, ma è intensissimo anche il dolore di perderli» • «Regista d’opera ormai leggendario (tanto per dare una cifra approssimativa, circa 1.600 recite sono state tratte da suoi spettacoli al Metropolitan di New York)» (Lenzi). «Zeffirelli si considera un outsider nel cinema, e in effetti le sue opere, pur ineccepibili dal punto di vista dell’accuratezza registica, non sembrano, come avviene per Visconti, mai intrecciare i percorsi del cinema contemporaneo, né avvertirne le tensioni e i mutamenti. Zeffirelli è un sovrano della scena lirica dell’ultimo quarantennio, e per molti aspetti è stato l’ideale successore di Visconti. Il suo nome è garanzia di sicuro successo per teatri come il Metropolitan, il Covent Garden, la Scala, e la critica musicale internazionale lo ha osannato in molte occasioni. La critica cinematografica italiana invece non lo ha mai amato né osservato con simpatia» (Brunetta) • «I miei film sono nati da un atto d’amore. Per questo ne ho fatti anche di brutti: quelli, non li amavo davvero. Romeo e Giulietta è stato la passione della giovinezza, Un tè con Mussolini quello della maturità». «In tutti i miei film ci sono parti di me. Io sono stato Mercuzio, Giulietta e Romeo. Sono stato Amleto, la Caterina della Bisbetica domata e il personaggio di Jeremy Irons in Callas Forever. In fondo, ogni regista non fa che raccontare se stesso». «Fortunatamente nella vita ho fatto sempre quello che desideravo fare. Dopo il successo di Romeo e Giulietta (40 milioni di incasso solo negli Stati Uniti) ero il regista più conosciuto e – credo – famoso al mondo. La pellicola salvò la Paramount dal collasso finanziario al quale sembrava ormai destinata, e iniziarono così a piovermi addosso proposte di lavoro, anche molto importanti. Ricordo che mi volevano per dirigere Il Padrino, una pellicola sicuramente di spessore, ma io non ho mai accettato qualcosa che mi è stato offerto: ho sempre scelto e deciso con la mia testa, volevo fare solo quello che sentivo veramente mio. Ecco perché posso dire di non avere rimpianti. Ho però ancora dei sogni nel cassetto: per esempio, la realizzazione del film I fiorentini sulla caduta dei Medici a Firenze oppure la pellicola che porta in scena l’Inferno di Dante, un kolossal per il quale abbiamo lavorato tanto tempo, ma alla fine non sono stati trovati i finanziamenti necessari per la sua realizzazione; tutti i bozzetti e gli appunti sono oggi esposti all’interno del museo della Fondazione Zeffirelli a Firenze» • «Sono stato un bravo ragazzo con la fortuna di avere molti talenti». «Non ho venduto l’anima per il successo. Ho dato il culo per fare carriera, ma non ho rimorsi: fu piacevole» (a Piera Anna Franini). «Ho sempre amato il bello, quello semplice e rigoroso che perfora il cuore e la mente senza sforzo». «Le battaglie di questa vita mi hanno insegnato molto, e hanno fatto di me una persona migliore. E poi? “E poi il Nulla”, canta Jago nell’Otello di Verdi. Ma io devo credere per forza all’aldilà. Non è possibile che tutti i grandi con cui ho lavorato, che tutto quel genio irripetibile ora sia ridotto al nulla. No. Io devo credere per forza» (a Paolo Scotti). «Tutto questo casino che ho fatto quaggiù alla fine non so se mi farà meritare un pezzetto di cielo. Tutto è così relativo. Sia nei punti di riferimento come nelle tracce che lasceremo». «Lasciare a tempo debito è un’arte. Non voglio sporcare nulla. Non voglio chiedere. I prati che ho calpestato, voglio ricordarmeli tutti in fiore».