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 2019  febbraio 10 Domenica calendario

Statue da innalzare (e poi da abbattere)

Dentro il complesso del Getty Center di Los Angeles, il Research Institute ha una funzione particolare. Pur essendo uno spazio espositivo, non ambisce a riempirsi dei visitatori che in queste settimane accorrono nel grande padiglione centrale per la mostra sul Nudo nel Rinascimento. Il Research Institute offre idee, spunti, provocazioni. Per esempio, ha da poco aperto un progetto intitolato MONUMENTality, che si presenta così: «La monumentalità evoca un’aura di grandezza, un senso di potere e di autorità che reclama pubblico riconoscimento. La mostra indaga diversi paradigmi della monumentalità, spingendo il visitatore a chiedersi perché certi monumenti durino e altri crollino».
La mostra, negli spazi ridotti dell’istituto (fino al 21 aprile), è tutt’altro che monumentale, ma brillante per i cortocircuiti culturali che provoca. All’ingresso ci accoglie la gigantografia di una foto d’epoca. A terra c’è una statua romana e accanto, in bella posa, i suoi abbattitori. Vestono una divisa di seconda metà dell’Ottocento, sembrerebbero «giubbe blu» nella guerra di Secessione. Sorridono, ma hanno un’aria piuttosto scalcagnata. Bisogna leggere la didascalia per capire che la fotografia, in realtà, è stata scattata in Francia, durante la breve vita della Comune di Parigi, tra il marzo e il maggio del 1871. E che quei soldati sono miliziani del popolo che hanno appena abbattuto nientemeno che la colonna di Place Vendôme. I resti «romani» infranti sono quelli della statua che Napoleone ci aveva posto sopra, in cui si era fatto rappresentare come un novello imperatore Traiano. La colonna, che ancora oggi è un’imperdibile attrazione turistica, fu rimessa in piedi nel 1873 da Adolphe Thiers, il repressore della Comune. Da allora la statua di Napoleone è salita e scesa un paio di volte dalla sommità della colonna, a seconda dell’atmosfera politica. Attualmente c’è, ma chissà se i gilet gialli sono d’accordo a tenercela… I monumenti, infatti, seguono le fortune di chi li ha eretti, almeno finché è passato abbastanza tempo da dimenticarsi la ragione originale per cui furono costruiti.
Sempre dalla Francia viene la storia dei monumenti patriottici dell’Algeria. Dopo l’indipendenza conquistata dagli algerini, i francesi furono costretti a lasciare indietro case e ricchezze, ma riportarono in patria statue equestri e cippi militari. Sconfitti dalla storia, i francesi cercarono almeno di salvare, sottraendoli alla distruzione, la vergogna della memoria. 

Il destino e le alterne fortune degli uomini producono, per certi monumenti, anche esiti diversi che non la classica parabola erezione-abbattimento. Ricordo ancora l’emozione che mi colse quando, una dozzina di anni fa, visitai lo straordinario «cimitero» delle statue comuniste che si trova a Tétény, alla periferia di Budapest. Lì, invece di distruggere l’immagine del passato, i nuovi padroni hanno deciso di conservare la memoria sfruttandone il lato di attrazione turistica. Il «cimitero» è stato prudentemente piazzato lontano dal centro e vi si accede con un biglietto, permettendo di vedere – con un sentimento inestricabilmente misto di ammirazione e spavento – un’antologia della grandiosa estetica comunista. La stessa che informa gli splendidi monumenti «patriottici» edificati da Tito negli anni Settanta per cementare il senso nazionale jugoslavo e che ora giacciono dimenticati: la storia è raccontata in mostra da un affascinante documentario.
La monumentalità, d’altra parte, era intrinseca al sogno comunista. A tal punto da affossarne il destino, in senso metaforico e pratico. Al Getty sono esposti i disegni per la costruzione del Palazzo dei Soviet di Mosca, per il quale nel 1931 fu bandito un concorso a cui parteciparono nientemeno che Gropius e Le Corbusier. Vinse l’architetto russo Boris Iofan, il cui progetto si rivelò irrealizzabile per eccessivo gigantismo (la statua di Lenin che l’avrebbe sovrastato sarebbe stata alta il doppio della statua della Libertà, per dirne una). I lavori iniziarono nel 1937 e furono definitivamente abbandonati nel 1958, quando sull’area venne costruita una grande piscina pubblica scoperta. A sua volta rimpiazzata, negli anni Novanta, da una cattedrale: una successione di destinazioni d’uso che si presta a chiarissime letture.
Ci sono però anche monumenti progettati, paradossalmente, per non durare. Insieme ad altri esempi di eterodossi approcci, MONUMENTality documenta la storia di We: the People – Message Monument #1, un progetto dell’artista californiana Joyce Cutler Shaw pensato per il Bicentenario degli Stati Uniti nel 1976. L’idea era di erigere davanti al Campidoglio di Washington, durante l’inverno, una scritta di ghiaccio prodotta mescolando acqua proveniente da ciascuno Stato degli Usa. La scritta, lunga una ventina di metri e alta quattro, avrebbe appunto riportato le prime parole della Costituzione: «We, the people…». Con la primavera, la scultura si sarebbe sciolta e l’acqua sarebbe ritornata al suo ciclo naturale.
La monumentalità investigata dalla mostra non si limita a opere o edifici costruiti o progettati con manifeste intenzioni celebrative. Esiste una monumentalità anonima, uno spirito di grandezza che vive in aggregazioni collettive come la stessa città di Los Angeles: una metropoli «monumentale» che, come acutamente osservano i curatori, non possiede veri monumenti, al massimo landmark, punti di riferimento.
Si esce dalla mostra con molte domande: esiste ancora il concetto di monumentalità nell’era digitale, dove imperano il provvisorio, il «liquido», il presente contrapposto alla durata? La pietra è stata sostituita dal virtuale? Il monumento contemporaneo più rappresentativo non sarà forse un social network come Facebook, affascinante proprio per la sua enormità planetaria? In fin dei conti, connettersi con gli altri per sentirsi parte di una comunità non è quello che gli uomini hanno sempre cercato entrando in un tempio, una chiesa, un mausoleo o un altare della patria?