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 2019  febbraio 10 Domenica calendario

Il neo monumentalismo

Un immaginario viaggiatore appassionato d’arte contemporanea. Per essere informato e aggiornato, passa attraverso le diverse stazioni di una sorta di via crucis espositiva: Biennale di Venezia, Documenta di Kassel, Skulptur Project di Münster, Manifesta. Membro di una tribù conformista che si illude di essere anticonvenzionale, quel viaggiatore resta disorientato dinanzi alla varietà di proposte linguistiche e tecniche nelle quali si imbatte. Ma, forse, non può fare a meno di notare che, in quel suk di stili, alcuni aspetti sono ricorrenti. Innanzitutto, il declino della pittura. Ma anche la (parziale) crisi della videoarte. E, insieme, l’inattesa ripresa di interesse per la scultura. O meglio, per una declinazione specifica della pratica plastica: il monumentalismo. Siamo dinnanzi a un genere storicamente connotato, che sorprendentemente è tornato d’attualità, arricchendosi di inedite sfumature semantiche.
Non si tratta di un ritorno, né di un vago ripiegamento. Siamo lontani dalle intenzioni commemorative care alla tradizione. Ma siamo anche lontani dall’orizzonte analitico del minimalismo e del concettualismo. Di fronte a noi è una nouvelle vague, i cui protagonisti, oltre a personalità come Anselm Kiefer, Anish Kapoor e Christian Boltanski, sono voci di diverse generazioni come Marta Minujín, Tomás Saraceno, Doris Salcedo, Thomas Hirschhorn, Pablo Hare, José Carlos Martinat, Rä di Martino (per fare qualche nome). Presentate in appuntamenti dedicati esclusivamente a tale esperienza (Skulptur Project di Münster e Monumenta di Parigi), le opere di questi autori si incontrano spesso anche in alcuni tra i più importanti eventi internazionali. Nel 2013 la Tate Modern di Londra ha ospitato una mostra, Ruins in Reverse, che ha colto gli esordi di questo fenomeno oramai sempre più diffuso.

I neo-monumentali condividono alcune istanze. Per un verso, manifestano una profonda fascinazione per quella che Rosalind Krauss, in un saggio del 1978, ha definito la «logica del monumento», che si fonda su alcuni elementi decisivi: attenzione alle funzioni celebrative della statua, collocazione della statua stessa in luoghi specifici, riferimenti a situazioni o a personaggi storici, rispetto di una grammatica mimetico-rappresentativa, predilezione per le soluzioni verticali, ricorso a piedistalli in grado di indicare una distanza tra spazio reale e segno costruito. Un esempio: la scultura equestre di Marco Aurelio, posta al centro del Campidoglio, che rappresenta il legame tra l’antica Roma e la sede del governo della Roma rinascimentale.
Per un altro verso, i neo-monumentali riaffermano con forza la centralità del «fare in grande», sottraendosi però alla retorica della bigness che, spesso, nella postmodernità, non allude ad altro da sé, ma parla solo di sé stessa, come uno slogan pubblicitario, indifferente a ogni intenzionalità critica, efficace però dal punto di vista comunicativo.
Per un altro verso ancora, questi artisti avvertono la necessità di reinventare e di riattivare un genere nobile, ampiamente consolidato e riconoscibile. Ne decostruiscono le regole interne, compiendo azioni iconoclaste e audaci torsioni rispetto a una vicenda millenaria. Nella maggior parte dei casi, essi non si servono di tecniche come intaglio e modellato né di materiali come bronzo, marmo, terracotta e ceramica. Ma, sulle orme di alcune profezie di Boccioni («Anche venti materie diverse possono concorrere in una sola opera allo scopo dell’emozione plastica»), tendono a stratificare disparati materiali e oggetti di recupero con procedimenti come l’incollaggio, la saldatura e l’incastro in assemblaggi con forti valenze astratte, architettoniche, meccanomorfe o politiche. Inoltre, memori della lezione scandalosa e visionaria del «grande rigattiere» Schwitters, si portano al di là della concezione monolitica del monumento come forma plastica autocentrata, chiusa in sé e autonoma rispetto al contesto circostante, per dischiudere le loro installazioni al mondo esterno. Determinano così un gioco di reciproche influenze tra l’arte e lo spazio ambientale dentro cui essa è situata. E disegnano i contorni di un monumentalismo paradossale, assurdo. Anti-monumentale, verrebbe da dire.
A differenza di quelli innalzati dal Rinascimento al XX secolo – che poggiano su basi e si offrono al nostro sguardo – i nostri anti-monumenti non si fanno contemplare: sentono e accolgono il visitatore, che può abitarli, attraversarli. Si tratta di opere site specific, senza piedistalli, che straboccano fuori di sé, protese verso l’esteriorità. Mentre, infatti, i monumenti classici erano finiti e chiusi, i loro eretici eredi postmoderni appaiono dissonanti, discontinui, imperfetti, non-finiti, simili a cantieri destinati a restare meravigliosamente aperti, incompiuti.
Ma gli anti-monumenti sono soprattutto altro. Sono dispositivi che invitano a riflettere su una diversa idea di tempo. Non hanno l’ambizione di durare, di sfidare la storia: insomma, per citare un detto antico, non sono monumenta aere peremnius («monumenti più duraturi del bronzo»). Hanno un carattere provvisorio e sono connessi con occasioni particolari. Non vogliono fare resistenza al flusso della vita, ma mirano a collaborare con esso. Testimoni di una cultura performativa e partecipativa, non «chiedono» di essere preservati né contemplati. Per «restare», hanno bisogno di fotografie e di video, che ne tramandino la memoria. La loro identità transitoria, ha scritto Boris Groys, sembra «prefigurare e imitare quel futuro in cui le cose a noi contemporanee si eclisseranno».
Rivelatori di questi scenari sono i monuments dedicati da Hirschhorn a scrittori (Bachman e Carver) e a grandi pensatori (Spinoza, Deleuze, Bataille e Gramsci). Centri distributori di idee. Imponenti e, insieme, instabili, precarie e fragili cattedrali, concepite per un pubblico popolare, fatte di materiali quotidiani, poveri, poco pregiati (legno, cartone, cartapesta, nastro adesivo). «I miei monumenti non rimarranno lì per l’eternità», ha detto Hirschhorn. «Ciò che rimarrà sono i pensieri e le riflessioni. Ciò che resterà è l’attività di riflessione».