La Lettura, 10 febbraio 2019
La rivolta delle api
Nel settimo capitolo della prima edizione dell’Origine delle specie, dedicato agli istinti, c’è uno dei passaggi più delicati del lungo argomento con il quale Charles Darwin presenta al mondo la sua teoria dell’evoluzione. Sollecito nell’affrontare le difficoltà della teoria prima che queste vengano sollevate dai suoi avversari, Darwin si chiede in quale modo la selezione naturale possa aver prodotto le caratteristiche anatomiche e comportamentali delle api operaie o delle formiche operaie. Questi individui, infatti, sono sterili: pertanto, anche i meglio riusciti fra loro non sono in grado di trasmettere le proprie caratteristiche alla discendenza, visto che non ne hanno nessuna.
Con una delle sue grandi intuizioni, però, Darwin indica la strada che può portare a una spiegazione dell’apparente paradosso. Negli insetti sociali, osserva, la selezione potrebbe agire sull’intera famiglia, anziché sul singolo individuo. In altre parole, gli individui capaci di riprodursi (i fuchi, cioè i maschi, e le regine, cioè le femmine fertili) di una famiglia che funziona meglio di un’altra anche per merito degli individui sterili che ne fanno parte avranno maggiori possibilità di riprodursi; e così produrranno anche molte operaie con caratteristiche simili a quelli delle operaie della generazione precedente. Su questa idea di Darwin hanno lavorato con successo i biologi evoluzionisti della seconda metà del Novecento, facendo proprie le conoscenze acquisite nel frattempo in materia di genetica e interpretandole alla luce della cosiddetta regola di Dzierzon. A metà dell’Ottocento, il reverendo polacco-tedesco Johann Dzierzon scoprì nell’ape la partenogenesi (alla lettera: «generazione virginale»). Più precisamente, per partenogenesi, cioè da uova non fecondate, nascono sempre e soltanto fuchi, cioè api di sesso maschile, mentre le femmine si sviluppano a partire da uova che sono state fecondate. Se poi una femmina, arrivata all’età adulta, sarà fertile, cioè una regina, oppure sterile, cioè un’operaia, questo dipenderà dalla dieta con la quale sarà stata nutrita durante la fase larvale. Per produrre una regina, è necessario che le operaie nutrici forniscano alla larva una giusta razione della preziosa pappa reale da loro prodotta.
Tutto a posto, dunque, nell’operosa quotidianità dell’alveare? Siamo certi che al suo interno ciascun individuo rispetti i ruoli previsti dalla casta alla quale appartiene in virtù (o per colpa) di regole scritte nelle sue cellule o nelle molecole sotto l’influenza delle quali si è sviluppato?
In realtà, le cose non vanno sempre in questo modo. Fra le decine di migliaia di operaie che si avvicendano in un nido nel corso dell’anno (ciascuna di esse ha una vita adulta di soli 30-40 giorni, fino a sei mesi solo per le poche che passano l’inverno nell’alveare assieme alla regina), una frazione più o meno numerosa avrebbe, a dire il vero, qualche possibilità di riprodursi. Gli ovari di queste operaie, pur essendo molto meno sviluppati di quelli di una regina, non sono del tutto atrofici e in qualche caso riescono a portare a maturità alcune uova. Queste, però, non potranno essere fecondate, in quanto l’operaia non ha avuto occasione di accoppiarsi con un fuco, e quindi potranno svilupparsi solo per partenogenesi, producendo prole maschile secondo la regola di Dzierzon.
Secondo un recente studio di Karolina Kuszewska e colleghi dell’Istituto di Scienze ambientali dell’Università Jagellonica di Cracovia, queste operaie capaci di avere figli non depongono le loro uova nel proprio nido, ma nelle cellette di un altro alveare. Non è chiaro se il mancato ritorno a casa sia dovuto, nel loro caso, allo smarrimento della giusta rotta oppure a una scelta capace di aumentare la loro speranza di diventare madri. In ogni caso, però, meritano la qualifica di «api ribelli» che gli studiosi polacchi hanno attribuito loro: se ci azzardiamo a descrivere il comportamento delle api con i termini che applichiamo agli umani, dal punto di vista della comunità da cui proviene la nostra operaia può essere considerata una ribelle perché non continua, come ci si aspetterebbe, a nutrire le sorelle più giovani, cioè le larve nate da uova deposte negli ultimi giorni dalla sua stessa madre. Dal punto di vista della comunità nella quale è emigrata, però, essa rischia di trasformarsi in un parassita. Infatti, anche se forse porterà al suo nido adottivo un po’ di cibo raccolto sui fiori e con questo nutrirà larve che non sono sue sorelle, verrà tuttavia a occupare cellette che erano destinate alle uova della regina residente, e non alle sue; e le larve che schiuderanno da quest’ultime saranno nutrite, nei giorni a venire, da operaie che, ignare, aiuteranno i figli di un’estranea.
L’abbiamo definita parassita, l’ape ribelle che è andata a deporre le sue poche uova in un nido che non è il suo, ma faremo bene a precisare che il suo è un caso di parassitismo sociale, una situazione in cui un animale trae vantaggio dalle cure che un altro animale presterebbe invece alla propria prole, che così si trova ad essere trascurata.
Fra gli animali che praticano il parassitismo sociale, il più noto è il cuculo. La femmina di questo uccello, anziché farsi un nido, magari con l’aiuto del maschio, depone le proprie uova, una per volta, nel nido di un uccello di specie diversa (ad esempio, la capinera), dove il piccolo cuculo, più grosso e più vorace dei fratellastri, finirà per monopolizzare le attenzioni di quelli che sono diventati i suoi genitori adottivi. Ancora più drammatica è la situazione di quei nidi di formica che sono stati invasi da una pattuglia di formiche schiaviste. Nelle loro società di quest’ultime vi sono solo gli individui riproduttori (maschi e regine), più una casta di soldati dalle grandi mandibole la cui prima preoccupazione, quando invadono un nido altrui, è quella di ucciderne la regina, mentre le operaie verranno risparmiate – saranno loro ad allevare la prole della regina usurpatrice, con la quale non hanno il minimo rapporto di parentela.
Il caso delle api ribelli non è altrettanto cruento, ma è forse più inquietante, perché vittime e profittatori appartengono alla medesima specie. Fatti di questo genere, ricordano Kuszewska e colleghi in un recente articolo pubblicato su «Ecology and Evolution», sono particolarmente frequenti presso gli uccelli, dove sono stati documentati in oltre duecento specie, fra le quali lo struzzo, il germano reale, l’oca, il tacchino, il fagiano, la beccaccia, il piccione selvatico, la tortora, la gazza, la rondine, il passero, lo storno.
Qualcuno potrebbe commentare: se il parassitismo sociale è così diffuso in natura, perché dovremmo condannarlo quando a praticarlo è l’uomo? La risposta a una simile argomentazione non deve limitarsi a stigmatizzarne il brutale cinismo, che ai nostri tempi non è proprio il caso di alimentare. Con un ragionamento analogo, potremmo per esempio giustificare l’infanticidio, in quanto rientra nel repertorio comportamentale di alcuni animali, compreso il nobile re della foresta. Non lasciamoci andare a queste perverse elucubrazioni. Nemmeno quando il nostro potenziale termine di confronto è un animale alle cui società l’uomo ha guardato tante volte come a un modello ideale. La filosofia dell’etica e del diritto ci dice chiaramente che stiamo cadendo nella fallacia naturalistica: guai a ricavare una prescrizione (legge o imperativo morale) dalla semplice constatazione che un comportamento di un certo tipo è praticato da qualcuno, leone o ape che sia.