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 2019  febbraio 10 Domenica calendario

Intervista a Dario Argento

Dario Argento, rivedendo i suoi film, si spaventa mai di se stesso per averli pensati? 
«Mai. Ho un buon dialogo con la mia metà cattiva. Non tutti sanno d’averla e solo alcuni la vivono in modo malvagio. Io, invece, la riconosco e ci parlo. Dio mi ha dato questo dono». 
Cita Dio. È credente? 
«Praticante. Mi confesso e, la domenica, faccio le letture nella mia chiesa». 
Il suo confessore che dice dei suoi film? 
«Che il mistero e l’orrore sono anche nella Bibbia». 
Che cos’è il male? 
«Volere cose di cui non hai diritto. Volere la morte, il dolore altrui, appropriarsi di oggetti che non ti appartengono. Trattare male le persone. Essere razzista. Trattare le donne come oggetti, violentarle: questo è molto male». 
Nel male c’è lo zampino del diavolo? 
«Non di uno solo, ma di tanti. Secondo i miei studi, sono migliaia, tutti col loro nome e una loro specialità». 

Dario Argento, 78 anni, maestro del thriller e dell’horror, è fra gli italiani più celebri nel mondo, invitato a retrospettive in suo onore e master classes negli Stati Uniti, in Sud America, Russia, Corea, Cina, Giappone... Dal 1970 in cui esordì alla regia dell’«Uccello dalle piume di cristallo», passando per «Profondo Rosso», fino all’ultimo «Dracula in 3D», ha girato una ventina di film, oltre a dirigere film tv e regie teatrali. Ha diretto Karl Malden, Harvey Keitel, Jennifer Connelly, David Hemmings, Philippe Leroy... Figlio della fotografa, ritrattista delle dive, Elda Luxardo e di Salvatore Argento, che di mestiere promuoveva il cinema italiano all’estero, è cresciuto giocando a biliardino con Federico Fellini, Luchino Visconti, Elio Petri. 
Qual è la scena più spaventevole che ha girato? 
«Forse l’inizio di “Suspiria”, con la ragazza che arriva all’Accademia di danza di Friburgo, piove, diluvia, il fiume s’ingrossa e invade la città... Non la fanno entrare, scappa, va da un’amica che viene assassinata. Dura 15 minuti, è un crescendo fino al parossismo». 
Le è piaciuto il remake appena fatto da Luca Guadagnino? 
«Non molto. Non fa paura. I produttori di Amazon mi avevano chiesto una supervisione, ma non ci pensavo proprio: per Luca forse era un omaggio, ma per loro era un’operazione per far soldi». 
È vero che, finito di girare quel film, per molte notti lottò con l’istinto di suicidarsi? 
«Sì e non ho mai capito perché. Il film era stato impegnativo, era il 1976, gli effetti speciali non esistevano. Mi ero separato da Daria Nicolodi, Asia aveva un anno ed era come se non l’avessi mai vista. Mi ero chiuso all’Hotel Flora, a Roma, a riposare per un mese. All’apparenza ero sereno, la sera venivano gli attori e la troupe, vedevamo film, andavamo a ballare al Jackie ‘O. Ma la notte la finestra mi chiamava, mi vedevo sfracellato al suolo. Un amico medico mi aveva detto di murarla con l’armadio, così da non potermi buttare se l’impulso fosse tornato. Funzionò, la notte mi ritrovavo accasciato fra l’armadio e le tende, ma vivo». 

«Suspiria» fu il primo capitolo della trilogia sulle streghe. Ha mai cercato le streghe? 
«Sono andato a incontrarne parecchie in Francia, Svizzera, Germania, nel Nord Italia, ma non posso dire di averle trovate. Nessuna sapeva mutare la realtà o scatenare gli agenti atmosferici». 
Le capita spesso di fare ricerche avventurose per i suoi film? 
«Molto lavoro è sui libri, spesso alla Biblioteca Angelica di Roma, che ha tutti quelli messi all’indice secoli fa. Però, ho rischiato di essere arrestato quando preparavo “La sindrome di Stendhal”. Andavo al Louvre a guardare le reazioni delle persone davanti alla Gioconda. Mi sedevo e osservavo. Andò avanti qualche giorno. D’improvviso, mi sento sollevare di peso. Mi portano al commissariato interno... Pensavano che fossi un vandalo che aspettava il momento migliore per colpire». 
Il primo ricordo da bambino? 
«Forse Amleto in teatro, a quattro anni. Quando vidi il fantasma del padre, mi prese un’emozione enorme. Mamma sostiene che ebbi le convulsioni. E poi, intorno agli 11 anni, una malattia mi tenne a letto per mesi, ricordo che lessi tutti i libri della biblioteca di mio padre, tutto William Shakespeare, Cyrano de Bergerac, fino all’incontro con Edgar Allan Poe. Fu lì che mi venne la passione per i racconti inquietanti». 
Per dieci anni, però, si limitò a fare il giornalista di «Paese Sera». 
«Mi affascinava stare solo con la macchina da scrivere. Ero timido e solitario, il set mi sembrava un luogo disdicevole, con troppa gente e troppa confusione. Il passaggio avvenne quando Sergio Leone mi chiese di lavorare sul soggetto di “C’era una volta il West” con un altro giovane che era Bernardo Bertolucci. Scrivemmo per due mesi, fu bellissimo. Dissi a papà che avrei fatto lo sceneggiatore». 
Suo padre si fidava al punto, poi, da aprire una società per produrre il suo primo film. 
«Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, siamo diventati amici carissimi, non più padre e figlio: viaggiavamo insieme, ci passavamo i libri, m’insegnava a vivere». 
Da ragazzo, che figlio era stato? 
«Discolo a scuola. Ero un grande lettore, più dei professori, ma con loro c’erano bisticci perché scrivevo temi bizzarri, molto ispirati ai libri che leggevo. Non so se la scuola non ha capito me o io non ho capito la scuola. Papà mi mandò in Francia a studiare sperando che finissi la terza Liceo, ma io passavo le giornate nella Cinemateque di Parigi, guardavo film gangster, western, espressionismo tedesco, danese, tutto Ingmar Bergman... Rimasi senza soldi, vivevo da bohémien». 
È lì che ha cominciato a fumare canne? 
«No, le ho fumate dai 30 ai 70 anni. Ho smesso perché mi veniva la tosse. Però non lo facevo per creare, ma per rilassarmi, ridere, scherzare». 
Perché nei suoi film le mani dell’assassino sono sempre sue? 
«Sto nella mente dell’assassino, so come si fa. Ci vuole un certo vigore. Mi appassiono anche. Penso di aver ucciso duecento persone. È diventata una specie di abitudine, come Alfred Hitchcock che faceva sempre un cameo nei suoi film» 

Perché si arriva a uccidere e che gusto ci trovano gli assassini seriali? 
«Si uccide per ragioni di interesse, passione, amore... L’inconscio agisce dal profondo, io sono un estimatore di Sigmund Freud, ho visitato la sua casa di Vienna mille volte. Invece, il gusto di uccidere è una cosa diversa, è una follia. Ho letto molto sul tema, c’è chi uccide e prova un orgasmo». 
Lei, incontrando qualcuno, ritiene di capire se è un potenziale assassino? 
«Se ci parlo un po’, capisco se è buono o cattivo. Di persone cattive, cioè portate alla violenza, ne esistono più di quante immaginiamo». 

Le capita che qualcuno abbia paura di lei? 
«Al contrario, sono il bersaglio di tanti squilibrati, uomini e donne, più donne. Tutti turbati dai miei film. Sono stato perseguitato da telefonate, minacce, appostamenti». 
Ha mai temuto per la vita? 
«Parecchie volte. Già dal primo film, uno veniva a urlare sotto casa. Un altro era convinto di essere uguale a me, ma non era vero per niente. Andava nei ristoranti e diceva di mandarmi il conto, mi chiamava e minacciava: paga o ti uccido a bastonate. Un giorno, i miei aiuto registi l’hanno sbattuto al muro, gli hanno dato qualche sberla ed è sparito. Quando stavo a Los Angeles per preparare “Tenebre” per la Fox, cambiai vari alberghi e uno stalker mi trovava sempre. Alla fine, decisi di tornare a girare in Italia». 
Donne stalker? 
«Ho avuto donne fintamente innamorate». 
Dicevano di amarla e volevano accoltellarla? 
«O sottomettermi, scudisciarmi con la frusta. Sadiche o masochiste: le attiro. Una voleva accoltellarsi e addossarmi la colpa perché la respingevo. Diceva di amarmi». 

A lungo, è stato ragazzo padre delle sue figlie, Asia e Fiore. 
«Da quando erano piccole finché non sono andate ad abitare per conto loro. Sono stati anni stupendi, fatti di vacanze insieme, teatro insieme, passeggiate, discussioni. Con Asia, quando viaggiavamo, io guidavo, lei come nei rally, faceva da navigatore con la mappa. Eravamo grandi amici». 
Che cosa l’ha addolorata di più delle vicende di Asia con Harvey Weinstein, Jimmy Bennett, Fabrizio Corona? 
«Forse la storia di Weinstein. Comunque, le voglio bene, ci vogliamo bene, anche se non approvo tutti i suoi comportamenti». 
Ha paura della morte? 
«Ho paura di non vedere più il giorno, di non andare più al cinema, di non frequentare più le mie figlie». 
Come vorrebbe essere ricordato? 

«Come Edgar Allan Poe: uno che ha suscitato grandi emozioni nell’epoca in cui viveva».