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 2019  febbraio 10 Domenica calendario

Intervista a Riccardo Muti

«Tre anni fa ho scoperto questa partitura: un compositore americano contemporaneo, William Schuman, ha dedicato una sinfonia al massacro delle Fosse Ardeatine. Mi son detto che era mio dovere, da italiano, commemorare quella tragedia settantacinque anni dopo in un paese come l’America che è stato decisivo per la nostra Liberazione, ma conosce poco la nostra storia e certamente sa poco delle Fosse Ardeatine. Ben venga questo ruolo della musica come educatrice». Così Riccardo Muti spiega quello che ha voluto organizzare nella "sua" Chicago, la città dove da ben nove anni è direttore artistico dell’orchestra sinfonica. Per tre serate consecutive, dal 21 al 23 febbraio, Muti dirigerà per la prima volta la Nona Sinfonia di Schuman, intitolata Le Fosse Ardeatine, seguita dal Requiem di Mozart. Il 21 il concerto sarà preceduto da una presentazione storica dell’eccidio del 1944, un dibattito a cui partecipo con lo storico Anthony Cardoza della Loyola University. Ne parlo con Muti mentre è dall’altra parte del mondo: in tournée con la stessa Chicago Symphony Orchestra in Estremo Oriente, Cina, Giappone e Taiwan.
Per preparare il libretto del programma, e il dibattito di presentazione al pubblico americano, ho messo a contribuzione uno storico canadese che vive a Roma da vent’anni ed è uno specialista di quel periodo, Anthony Majanlahti, autore di " Roma occupata" e " Roma divisa" (Il Saggiatore); ho visitato il Mausoleo con la guida di Nicoletta Leoni, nipote di uno dei caduti. Si rimane sempre sconvolti di fronte alla ferocia "terroristica" della rappresaglia delle SS dopo l’attacco partigiano di via Rasella, comprese le tante assurdità che circondarono quegli eventi.
«Fu proprio la visita al Mausoleo delle Fosse, nel 1967, che impressionò in modo indelebile William Schuman. Decise subito di comporre la sua Nona Sinfonia, come scrisse in seguito, "in uno spirito direttamente collegato alle emozioni di quella visita, perché chi l’ascolta voglia ricordare". Lui stesso ci tornò, l’anno seguente, e finì di comporre nel 1968. È lo stesso spirito con cui la dirigerò io. Come ha scritto il presidente Mattarella in una lettera che mi ha inviato per il concerto, commemorare le Fosse Ardeatine settantacinque anni dopo è un gesto che può aiutarci a preservare la tolleranza, la dignità umana, la pace, principi e valori senza tempo e senza confini. Per me, da italiano in America, è un dovere. Devo far conoscere anche le tragedie del nostro popolo, oltre che le bellezze dell’Italia».
La musica come arte impegnata, come educatrice dell’animo umano, per migliorare ciò che siamo? È un’ideale che purtroppo cozza contro una contraddizione stridente proprio nell’epoca della Seconda guerra mondiale. I nazisti erano dei musicofili, no?
«Purtroppo è così, usarono e strumentalizzarono la musica. Nel caso di Wagner si può dire che c’era una certa predisposizione: grandissimo musicista, però il suo antisemitismo era evidente, proclamato. In altri casi la propaganda nazista manipolò degli artisti fino al sacrilegio: usarono Bruckner la cui ispirazione era metafisica e religiosa, deformarono Beethoven che era stato un uomo di levatura etica straordinaria. La musica in quanto tale non contiene messaggi politici, e può essere usata anche nei modi più sbagliati».
Muti a Chicago, una storia che dura ormai da nove anni, e l’affetto del pubblico americano è evidente. Che cosa la lega a questa metropoli?
«Per un italiano Chicago è densa di ricordi storici: fu qui che il premio Nobel della fisica Enrico Fermi — fuggito dall’Italia nel 1938 per proteggere sua moglie dalle leggi razziali — portò sempre più avanti le sue ricerche sull’atomo e costruì un formidabile polo scientifico, ancora oggi attrazione per tanti talenti italiani. È un luogo dove la scienza e la cultura uniscono il meglio dei nostri popoli. Amo questa città anche per la sua bellezza architettonica, è la vera patria del grattacielo americano, culla di Frank Lloyd Wright, di un design ispirato dalla sua luminosità, dai riflessi del grande lago. E naturalmente c’è ormai una bella storia d’amore fra me e l’orchestra. Insieme lavoriamo anche per allargare il nostro contributo alla città: per esempio portando la nostra musica nelle scuole, i concerti gratuiti nel Millennium Park che hanno raggiunto le trentamila presenze, infine le visite nelle carceri minorili. È importante raggiungere fasce nuove di pubblico, di tutte le etnìe e di tutti gli ambienti sociali, inclusi gli afroamericani e gli ispanici, per andare oltre la tradizionale élite colta di estrazione europea».
Poi c’è la proiezione verso gli altri continenti, come l’ultima tournée asiatica: in una zona del mondo sempre più raffinata nella capacità di ascolto?
«Cina e Giappone hanno fatto passi da gigante nell’abbracciare e conquistare il nostro patrimonio musicale. Per fortuna non riescono ancora a replicare gli Stradivari! Ne traggo una lezione confortante: la nostra musica è davvero universale. D’altra parte, se c’è qualcosa che si deve salvare in una globalizzazione di cui vedo i limiti e gli squilibri, è proprio il confluire di linguaggi artistici diversi, che incontrandosi insieme possono generare nuove forme d’arte».
C’è una domanda a cui non può sottrarsi: e l’Italia, vista da Riccardo Muti che ne è un testimone nel mondo?
«Purtroppo in Italia non siamo meritevoli del nostro passato migliore. Da tempo non facciamo nulla per la cultura, e non mi riferisco solo alla musica. Basta guardare cos’è la televisione italiana. Sono molto addolorato per questa indifferenza verso la cultura, che dura da anni e non è solo prerogativa di un singolo governo o di una sola classe dirigente. L’Italia dovrebbe essere guardata nel mondo per quel che sta facendo, non solo per quel che fece nei secoli passati. Vedo nel mio paese tanto abbrutimento, turpiloquio e proclami senza sostanza. Ho sperato e ho lavorato per una vita, per un’Italia molto diversa da questa».