La Stampa, 10 febbraio 2019
Spread e recessione, segni premonitori di una nuova crisi
Nel frastuono mediatico dello scontro diplomatico con la Francia che ci ha tenuto occupato nei giorni scorsi ha attirato troppo poca attenzione uno sviluppo economico di grande importanza: il ritorno dello spread sui livelli prevalenti a inizio dicembre. Non è solo l’aumento dello spread a essere importante (in una settimana è salito di 50 punti base, l’aumento settimanale più rapido osservato da ottobre), ma anche, e soprattutto, la causa di tale aumento.
Prima di Natale le oscillazioni dello spread avevano riflesso notizie sulle intenzioni politiche del governo e sulle possibili conseguenze di tali intenzioni per i nostri rapporti con Bruxelles. Nell’ultima settimana l’impennata dello spread ha invece riflesso le cattive notizie che provenivano dall’economia reale: la caduta del Pil nel quarto trimestre, l’entrata dell’Italia in recessione (seppur «tecnica», cioè piccola, almeno per il momento), la caduta, per il quarto mese consecutivo in dicembre, della produzione industriale e le continue revisioni verso il basso delle proiezioni sulla crescita da parte di tutte le organizzazioni internazionali. Perché questa relazione tra aumento dello spread e cattive notizie sulla crescita è particolarmente importante?
Chi ha seguito i miei editoriali nei mesi scorsi forse ricorderà la mia preoccupazione per il possibile materializzarsi di uno scenario «da incubo», uno scenario che ci avrebbe ributtato in una crisi simile a quella del 2011.
Crisi di quel tipo, caratterizzate dalla lievitazione dello spread a livelli insostenibili (500-600 punti base), avvengono di solito quando in un Paese un debito pubblico già alto rispetto al Pil (e il nostro è senz’altro alto) ricomincia a crescere. Quando questo avviene gli investitori si chiedono se lo Stato sarà in grado di ripagare il proprio debito o se sarà in grado di ripagarlo nella stessa valuta (l’euro) in cui il debito è stato contratto. Ora, un aumento sensibile del rapporto tra debito pubblico e Pil, partendo dal quadro programmatico del governo (già molto rischioso), può facilmente realizzarsi se si va in recessione. Una recessione causa una perdita di entrate per lo Stato e gonfia il deficit: il debito aumenta più rapidamente. Inoltre, il denominatore del rapporto (il Pil) scende e il rapporto debito su Pil sale. La recessione, quindi, può portarci verso lo scenario incubo in cui il debito si impenna, lo spread aumenta, l’economia frena ulteriormente, i conti pubblici peggiorano: un circolo vizioso.
I dati recenti ci dicono che il rischio di recessione è molto aumentato. Per ora la recessione è tecnica, ma non ci sono indicazioni che in questo trimestre le cose vadano meglio. In questo contesto, l’aumento dello spread da un lato segnala il maggior rischio percepito sul realizzarsi dello scenario incubo. Dall’altro rende tale scenario più probabile.
Le previsioni finora uscite, compresa quella recente della Commissione Europea, includevano una ripresa economica nella seconda parte del 2019. Con uno spread riavvicinatosi di nuovo ai 300 punti base questa stessa ripresa sarebbe a rischio, e il Pil nella sua media annua potrebbe scendere, non salire.
Che dovrebbe fare il governo? La prima cosa che il governo avrebbe dovuto fare è non averci portato nella situazione attuale (perché il calo del Pil è solo in parte dovuto al rallentamento della crescita in Europa; il governo c’ha messo del suo, e non poco). Guardando in avanti, la questione non è tanto se una manovra di aggiustamento sarebbe utile o no quest’anno (neppure le regole europee la richiedono).
La questione è quella di abbandonare una politica economica velleitaria di aumenti della spesa pubblica non finanziati da adeguate coperture, di continui attacchi al funzionamento dei meccanismi concorrenziali (mettiamoci pure la chiusura domenicale dei negozi), di isolamento politico all’interno dell’Europa. La questione è quella di fare riforme, a partire da una vera semplificazione burocratica, che liberino risorse per consentire alle imprese di investire e produrre.
Il governo non sta facendo però queste cose. Di fronte alle cattive notizie che arrivano dall’economia, si sta invece avviando verso una strada diversa, presa in passato da Paesi in cui l’ideologia veniva a scontrarsi con la realtà: quella di cercare di piegare la realtà all’ideologia. Questa via comporta l’occupazione dei centri preposti alla fornitura di informazioni sulla realtà, la realtà economica, la realtà finanziaria, la realtà sui conti pubblici. Nomine importanti devono essere presto fatte per Banca d’Italia e Inps, decisioni su cui stanno commentando in questi giorni i media. Ma la decisione più importante riguarderà in primavera il Ragioniere generale dello Stato. Daniele Franco è in scadenza. È l’uomo che ha «bollinato» tutti i provvedimenti del governo, quello che ha detto se le coperture c’erano o non c’erano, quello che è stato sottoposto nei mesi scorsi a pesanti attacchi da parte di esponenti governativi. Una cosa ci ha contraddistinto in passato da altri Paesi a rischio, come la Grecia. I dati sui nostri conti pubblici, le stime e le previsioni fatte dalla Ragioneria generale dello Stato erano affidabili. Vogliamo perdere anche questa certezza?