Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2019
Tatto, il più filosofico dei sensi
Il toccare, gesto automatico o voluto, percezione aptica che fa da ponte tra noi e la realtà, è essenziale nel nostro abitare il mondo. Ed è essenziale anche riguardo alla conoscenza, perché è importante che le persone e le cose si e ci tocchino per poterne e volerne saperne qualcosa.
Ma che valore può avere il toccare nella società postmoderna in cui ognuno ha più spazio per sè che mai? Oggi che mobilità e tecniche digitali stabiliscono la distanza fisica tra noi e gli altri; oggi che ognuno possiede un capitale corporeo singolo, eppure avverte la solitudine che cresce insieme alla paura? Il realtà il bisogno di vicinanza e di toccarsi è più forte che mai, pur se percepiamo una grande vulnerabilità dei nostri corpi, anche i più perfetti.
Sviluppando questi e simili temi e passando disinvoltamente dall’analisi filosofica al discorso di costume, Elisabeth von Thadden, giornalista culturale del settimanale tedesco «Die Zeit», analizza il senso del tatto ma soprattutto l’azione del toccare con l’ausilio di argomenti ma anche portando storie, interviste, personalità. Come quella del ricercatore di aptica (la scienza del tatto) Martin Grünwald, tornato a Lipsia dal MIT di Boston perché allergico alla continua richiesta di utilità militare dei suoi studi. Nel suo Homo hapticus del 2017 Grünwald spiega che le persone possono vivere se cieche, sorde o anosmiche (incapaci di avvertire odori), ma non se prive di contiguità di pelle, perché il contatto fisico stimola, a partire dalla nascita, crescita e sviluppo del cervello e dell’ippocampo. Se con entrambe le mani tocchiamo due smartphone, veniamo colti da paura e stress. Senza un senso del tatto intatto non sappiamo dove sono davanti e indietro, sopra e sotto, né il mondo piatto e liscio degli schermi non può sostituire il contatto di pelle e il suo effetto tranquillizzante.
Sappiamo che Aristotele riteneva il tatto il più filosofico dei sensi, in quanto esso è prioritario ai pragmata, le cose, gli oggetti (De anima 422-423); il tatto è più generale e più intimamente legato loro della vista perchè è attraverso il tatto che la psyché individua le cose come identiche a sé, e toccando il particolare identifica l’universale. Forse la perdita di importanza del peso cognitivo di tale senso nella modernità è dovuta – ipotizza von Thadden – all’influenza del cogito di Descartes, dove si prende sul serio soltanto lo spirito. E si dimentica che Euriclea ri-conosce Ulisse al tatto, toccando la cicatrice al piede. Ma chi legge più l’Odissea.
Il paradosso del toccare su cui von Thadden si concentra e che percorre l’intero volume è sempre vivo e insolubile: si cerca la distanza perché si teme che l’altro si avvicini troppo, e poi ci si ritrova nell’isolamento e nella solitudine. Come i porcospini di Schopenhauer, che se stanno lontani hanno freddo ma se si avvicinano troppo si pungono.
La pelle ha fame, vuol essere toccata da un’altra pelle. In fondo von Thadden propone qualcosa di simile alla tenerezza di Isabella Guanzini: «il reciproco toccarsi – scrive Guanzini nel suo Tenerezza: la rivoluzione del potere gentile (Ponte alle Grazie, 2017) – corrisponde a una reciproca donazione di senso, in cui ciascuno lascia la propria impronta sul corpo e sull’anima dell’altro...Precisamente grazie a tale flusso...di affetti e di sensibilità sociale, che si trasmette come per travaso di corpo in corpo, di contatto in contatto, si costruisce un mondo comune».
Non si può sostituire la tenerezza del tocco con una doccia col bagnoschiuma, qualche amico, un gatto e uno smartphone. Il contatto fisico non violento nè aggressivo nè irrispettoso quanto condotto con tenerezza – sembrano concordare le due autrici – ci rassicura del fatto che non siamo soli. E questo senza voler invocare società del passato in cui dominavano prossimità e violenza, fame, dolore, contatti indesiderati, morte precoce. Ma senza nemmeno augurarci di venir toccati in futuro dalle superfici lisce, secche e piatte, pur se intiepidite da meccanismi di riscaldamento, di un robot.
Più di sessant’anni fa il filosofo ebreo delle religioni Martin Buber scrisse che quando si sarebbe trattato per lui di morire voleva stringere tra le mani non un libro ma la mano di un essere umano: «Non sapevo niente di libri quando saltai fuori dal ventre di mia madre; voglio morire senza libri, con una mano tra le mie».