Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2019
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Biografia di Paolo Scaroni raccontata da lui stesso
«Sono arrivato a Milano da Vicenza a 17 anni per frequentare la Bocconi. Non conoscevo le strade. Quando dovevo andare a San Babila, chiedevo le indicazioni ai passanti. Se, allora, qualcuno mi avesse detto che, tanto tempo dopo, sarei diventato presidente del Milan, lo avrei guardato incredulo».
Paolo Scaroni, classe 1946, ricorda lo spaesamento vissuto da ragazzo della buona borghesia veneta – a Schio il nonno materno Giuseppe era un dirigente della Lanerossi e il nonno paterno Ferruccio era primario in pediatria all’ospedale – arrivato a Milano non ancora maggiorenne. Lo fa con la soddisfazione – quasi con lo stupore – di chi ora guida la squadra della sua città d’adozione, dopo una vita professionale che – fra industria e finanza, potere e responsabilità – lo ha portato alla testa di multinazionali italiane e straniere: «Sono stato Ceo per 18 anni in public company, Pilkington, Enel ed Eni: credo che sia una esperienza fatta da pochi».
Siamo a Casa Milan, in Via Aldo Rossi, nella sede della squadra di calcio di cui, dal luglio scorso, è presidente su indicazione del Fondo Elliott. Nel ristorante interno, Scaroni scorre la lista dei piatti del giorno. Lui prende dello spezzatino con le verdure. Io faccio lo stesso, con l’aggiunta di riso al curry: «Abbiamo un amministratore delegato di grande caratura internazionale come Ivan Gazidis che, in Inghilterra, ha guidato l’Arsenal e che, negli Stati Uniti, è stato vicecommissario della Major League Soccer. Ci siamo divisi i compiti. Lui gestisce la società e la squadra. Io seguo le attività più propriamente italiane: il calcio è davvero una delle maggiori industrie del nostro Paese ed è uno dei cuori pulsanti della nostra società».
Il pallone ha una forza emotiva enorme. «Le dispiace se scrivo questo biglietto? Una mamma mi ha chiesto di scrivere a sua figlia, che pensa di abbandonare la scuola e che è tifosissima del Milan, per incitarla a non mollare. Il calcio è anche questo». Il calcio è, da sempre, amore. Ma è, soprattutto da qualche anno, business. «Qui ci sono due montagne da scalare: la montagna dei risultati sportivi e la montagna dei risultati economici. Quando incontro un tifoso pieno di entusiasmo che mi dice “presidente, perché non ci compra un altro grande giocatore?”, io gli rispondo “lo faremo, naturalmente se ce lo permetterà il financial fairplay”. E gli spiego il meccanismo che ti lascia acquistare giocatori soltanto con risorse che derivino da profitti del club. Spesso lui rimane colpito perché non conosce questa regola. Il calcio sta cambiando molto. E tutto il nostro mondo deve maturare».
Le mappe del calcio europeo sono mutate: i diritti televisivi, la managerializzazione e i capitali confluiti dall’Asia, dal Medio Oriente e dal Nord America lo hanno trasformato da fenomeno nazionale a fenomeno globale. Questo mutamento si inscrive nel ben più vasto processo di lungo periodo che ha cambiato la società e l’economia mondiale fra la seconda metà del Novecento e gli anni Duemila.
Scaroni è partito da Vicenza ed è arrivato a Milano: «Mio padre Bruno, d’accordo con mia madre Clementina, mi disse: “scegli l’università che vuoi, basta che vai fuori dal Veneto”. Dei 28 compagni della III B del classico Pigafetta, soltanto in due abbiamo frequentato l’università in altre regioni», ricorda mentre beve acqua minerale. Da Vicenza appunto a Milano («come mi disse una volta Indro Montanelli, non c’è nessuno più milanese dei non milanesi. A questa città sono legatissimo, ho casa in centro»).
Scaroni ha vissuto anche a Londra, Parigi, New York («quando facevo l’Mba alla Columbia University, lavoravo come cameriere ai party della borghesia newyorchese, guadagnavo qualche dollaro e conoscevo un sacco di ragazze») e Caracas («una città bellissima anche se violenta, ho conosciuto bene Chávez, certo per lui con il barile a 120 dollari era tutto più facile che non per Maduro con il barile a 60 dollari»).
Il primo lavoro a 21 anni alla Chevron, poi alla Saint Gobain («a Caracas per tre anni sono stato a capo di Venezuela, Ecuador e Perù, sono tornato in Italia quando la Saint Gobain è diventata azionista della Olivetti di Carlo De Benedetti, io entrai nel Cda di Ivrea»), quindi nel 1985 alla Techint («Agostino Rocca era un mio compagno di università») e nel 1996 alla Pilkington. Nel 2002 l’Enel e, nel 2005, l’Eni («per me ha rappresentato la combinazione fra le mie due grandi passioni: il business e la geopolitica»).
Adesso, oltre al Milan, è presidente della Giuliani Farmaceutici ed è deputy chairman della Rothschild. «Ho lavorato con le grandi public company. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra restano le idrovore del risparmio mondiale: i fondi di investimento lo indirizzano in aziende che rispettano i loro principi e i loro standard e che operano per il profitto sul medio e sul lungo termine. Funziona così tutta l’economia internazionale: prevale sempre la logica di mercato, anche in Paesi come l’Italia e la Francia in cui la sfera pubblica ha un suo peso significativo. Il padrone, pure in questi casi, è sempre il mercato».
Scaroni ha assistito all’evoluzione dell’economia mondiale, che dagli anni Settanta delle imprese nazionali con stabilimenti e mercati di sbocco all’estero è passata negli anni Ottanta a una organizzazione basata sulle multinazionali e, negli anni Novanta e negli anni Duemila, ai veri e propri gruppi globalizzati. «Conosco bene anche gli imprenditori, per quanto io abbia operato soprattutto nelle public company. È vero che ho lavorato con i Rocca, ma visti i rapporti di amicizia che avevo con loro non mi sono mai sentito un dipendente. Ho detto di no a Carlo De Benedetti e a Luciano Benetton. Alla fine, non sono mai stato sotto padrone». E, mentre chiede alla cameriera di abbassare leggermente le tapparelle perché da fuori entra troppa luce, si sofferma su una immagine zoologica: «Gli imprenditori sono animali diversi rispetto ai manager. Il manager e l’imprenditore sono tutti e due dei felini. Solo che l’imprenditore è una tigre. Il manager è un gattino. Non importano le dimensioni della sua attività. Anche il salumiere che ha il negozio qui a Milano alla Bovisa, per natura e istinto, è una tigre».
Le grandi mutazioni. Le cose che sono accadute e quelle che stanno per accadere nella savana del mercato, nella pianura dell’industria e nella foresta della finanza. In un Paese spesso prigioniero della mitologia della memoria e talvolta inguainato stretto stretto nella nostalgia, la sua attitudine verso il presente e la sua inclinazione per il futuro sono quasi iconoclaste: «Non guardo mai nello specchietto retrovisore. So che, in un Paese che cita spesso a sproposito Adriano Olivetti, Enrico Mattei e Vittorio Valletta, questa è una visione al limite del sacrilego. Ma io voglio raccontare e voglio farmi raccontare il futuro, non il passato. Voglio sentire il gusto del futuro, non voglio avere in bocca il ricordo del sapore del passato».
Oggi – in una improvvisa accelerazione dei punti di allontanamento fra passato, presente e futuro – tutti gli equilibri sono in via di rimodulazione. E Scaroni ha uno sguardo abituato a decrittare i mutamenti su larga scala. «Gli ultimi 25 anni sono stati segnati da globalizzazione, digitalizzazione e immigrazione. La globalizzazione è stata fondamentale, perché ha creato e diffuso ricchezza e prosperità. Ma hanno ragione i suoi critici, come Giulio Tremonti: è stata troppo rapida. La digitalizzazione ha migliorato radicalmente il mondo delle fabbriche e dei servizi. Però, la popolazione ineducata dell’Europa e degli Stati Uniti è stata la più colpita dalla richiesta di maggiori qualifiche e competenze».
In questi rivolgimenti, che nel bene e nel male hanno cambiato ogni cosa nell’Occidente delle democrazie liberali classiche, ci sono stati dei grandi assenti istituzionali e dei vuoti nell’elaborazione del pensiero. A livello internazionale e nazionale. «L’Unione europea è la grande assente sul terreno dell’attrattività verso i suoi cittadini. Facciamo un gioco: chi è il predecessore di Jean-Claude Junker?», mi dice mentre beviamo il caffè. Dieci secondi e rompe il mio silenzio: «José Barroso. Lo faccio spesso. E a nessuno viene subito in mente. Barroso è stato a capo della Commissione per dieci anni. I leader nazionali hanno mandato a Bruxelles esponenti inodori, insapori e incolori. Perché, in Europa, nessuno ha mai voluto che Bruxelles avesse una voce forte».
Per Scaroni, nell’elaborazione del pensiero pubblico, il tema assente è il terzo grande fenomeno degli ultimi 25 anni: l’immigrazione. «Oggi c’è una grande differenza fra gli immigrati economici, che di solito hanno vent’anni e sono maschi soli, e gli immigrati di guerra, che arrivano con la famiglia. Ovviamente le famiglie si inseriscono con molta più facilità nella nostra società. Il flusso migratorio va gestito. Se oggi lei va, alle due del pomeriggio, alla stazione ferroviaria di Vicenza, si guarda attorno circospetto. A Vicenza, il parco di Campo Marzo è off-limits da anni. Vanno fatte delle scelte: perché sennò il “buonismo” diventa “malismo”».
L’Europa e l’Africa. Vicenza e Milano, Caracas e Londra, Parigi e New York. Il dramma della Storia e la bellezza della Vita. Il percorso professionale e la vicenda familiare, con la moglie Francesca e i figli Clementina, Bruno e Alvise, che hanno generato sei nipoti. Mentre usciamo dal ristorante di Casa Milan, un tifoso ci ferma: «Presidente, facciamo un selfie?». Scaroni si presta sorridente. «Mi chiedono sempre di fare i selfie i tifosi uomini, non me lo chiedono mai le belle ragazze che tifano Milan».