il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2019
Intervista a Luca Argentero
Tolto il colore dei capelli (il principe azzurro è sempre biondo), Luca Argentero è un portatore sano di tutti gli stereotipi fiabeschi e di tutte le potenziali aspettative di una madre rispetto a un figlio maschio: è alto, spalle quadrate da nuotatore consumato, conosce il congiuntivo e sa leggere i bilanci societari, non è per niente timido ma neanche sfrontato, sicuro di sé senza voler mettere soggezione. Insomma, sa quello che vuole e lo persegue con metodo e disciplina quasi militari. Però fuma, molto, e non è per atteggiamento o ruolo, è vizio, e il “neo” lo rende quasi umano. “In questi giorni giro molto per promuovere Copperman: a questo film tengo veramente, ed è la prima volta che mi riguardo e penso ‘va bene così’. Non cambierei nulla della mia interpretazione”. Nel film diretto da Eros Puglielli interpreta Anselmo: bambino speciale prima, adulto speciale poi, dove il “cerchio” è l’unica forma di rassicurazione (per lui l’oblò della lavatrice è il massimo), l’ingenuità non è una deminutio ma una differente chiave per leggere e affrontare la realtà; aiutare il prossimo una necessaria risposta. E Argentero non è soltanto credibile, è proprio bravo.
Già nel 2010 la Mancuso l’ha inserita tra i migliori attori, nonostante non abbia frequentato l’accademia.
Davvero? Non lo sapevo, sono lusingato. Comunque un giorno un professore mi disse: “Ci sono ottimi studenti ma pessimi professionisti”. Non è scontato il passaggio dalla teoria alla pratica, e la maggior parte delle professioni, per me, si apprende strada facendo.
Ha studiato Economia.
E subito dopo, fondamentalmente, non sai fare nulla.
Si ricorda qualcosa di allora?
Sono fortunato: ho amato e amo studiare, non mi cimentavo solo per appiccicare delle nozioni e poi dimenticarle.
Applica ancora qualcosa?
Nella misura in cui sono l’imprenditore di me stesso, poi una laurea ti serve tutti i giorni per saper parlare, capire qual è il metodo giusto per approfondire; se poi uno ha affrontato un manuale di diritto privato da 1.000 pagine non si spaventa davanti a 40 fogli da portare in scena.
All’inizio si sentiva in difficoltà per non aver frequentato l’accademia?
Per i primi ruoli non sono stato scelto grazie alla mia preparazione, ma per altre qualità; quando ho parlato con il produttore di Carabinieri (fiction), gli dissi: “Siete sicuri di volermi? Non sono un attore”.
Risposta?
“Non ti preoccupare, il personaggio non è un personaggio: sei tu con la divisa da carabiniere, quindi non ti chiediamo di entrare nei panni di qualcun altro”.
E ciò la rassicurava?
No, per niente: avevo comunque un timore reverenziale davanti alla macchina da presa, però non imbarazzo, la vedevo come amica, e per fortuna mi sono divertito.
Da subito.
Dal primo giorno ho pensato: “Questa è la mia vita”.
Il giudizio degli altri, lo sentiva?
Allora, sempre. Oggi forse no, e parte del pubblico non si ricorda neanche più la mia partecipazione al Grande Fratello (terza edizione), magari mi associano a un film e solo successivamente scoprono il mio punto di partenza.
Mentre all’inizio?
Passavo la prima mezz’ora di una conversazione a convincere l’interlocutore che non ero un coglione; superata la mezz’ora si costruiva qualcosa.
Sempre così?
Sempre!
Si era allenato.
Preparato, mai arreso. Poi a prescindere da Carabinieri la fortuna è stata quella di venir scelto da grandi autori come Comencini, Özpetek e Placido: un certificato di garanzia assoluto per tutti gli addetti ai lavori,
Sul set bisogna saper rubare dagli altri?
E non solo a colleghi-attori o registi, ma anche all’operatore di macchina. Il mio è un mestiere molto complesso che prevede una serie di competenze tecniche, per questo ho sempre rotto le palle a tutti, in particolare all’inizio, e anni dopo mi sono cimentato con la produzione.
Ha subito recitato con i grandi.
Ed è come giocare a tennis: se sul campo ti confronti con quelli forti, allora capisci i loro colpi, le astuzie, come si affronta un match di livello; sul set della Comencini stavo accanto a Golino, Zingaretti, Battiston.
Con Özpetek…
Lì c’erano Accorsi, Ferrari, Buy, Fantastichini, Timi, Angiolini e Favino: ti siedi al tavolo con loro per le letture, ed è già una master class assurda; se sei un po’ spugna questo lavoro lo assimili.
Porta mai a casa il ruolo?
In Copperman è successo: la mia compagna è stata molto paziente, durante le riprese non era piacevole neanche andare a cena con me. O forse sì, non lo so…
Perché?
Troppo immerso in quella realtà: per entrare in Anselmo è stato necessario cambiare il punto di vista.
Esempio…
Per Anselmo il tondo è una figura fondamentale, catalizzatrice di attenzione, è il bello, il suo rifugio: così, è capitato che a cena iniziavo a girare il caffè con il cucchiaino e non la smettevo.
Con i Cinepanettoni si evita questo pericolo.
Non ce n’è bisogno, anzi è utile arrivare sul set con una leggerezza totale, fresco e riposato per poterti divertire. Però il cinepanettone è un genere a sé, è la farsa, e veder lavorare Christian De Sica è un insegnamento.
Quanto è durato l’effetto Anselmo?
In realtà non è ancora terminato e ha confermato alcuni aspetti che avevo dentro, come quello di voler coccolare il mio bambino interiore: devi arrivare sul set e giocare con te stesso, e il mio lato da fanciullo è il migliore.
È necessario.
Il mio è un lavoro dove continui a giocare con te stesso, con la tua voglia di sperimentare, di stare in mezzo agli altri. Non è un lavoro d’ufficio.
I suoi ideali da ragazzo.
Allora non sapevo cosa volevo fare, però ero consapevole di cosa non volevo.
Già qualcosa.
Non avrei voluto passare la mia vita in giacca e cravatta, non volevo un lavoro ordinario, costante e sempre uguale a se stesso; continuavo a ripetermi “sarò felice se cambierò almeno dieci volte professione”.
Vita avventurosa.
Fuori dallo schema che mi stavano proponendo, per questo ho evitato di studiare Medicina e Giurisprudenza, mentre Economia mi dava un amplissimo spettro.
Diplomato con…
56 sessantesimi, mentre alla laurea ho ottenuto 96 su 110 perché non ho mai rifiutato un voto.
Rappresentante d’istituto?
Mai avuto un ruolo.
Scritte sui muri a lei dedicate?
Neanche una. Fino alla fine del liceo sono stato un ottimo compagno di scuola, ma non un leader o un punto di riferimento. Ero uno dei tanti, capace di stringere amicizia con chiunque, quindi benvoluto, però non un capetto.
Fino a quando…
La svolta è arrivata con l’università: in quel periodo ho iniziato a lavorare come barman, e lì ammetto che quel ruolo portò alle stelle la mia evaluation sociale, nonché il mio successo con le donne.
Non è leggenda, quindi.
È realtà, ed è un punto puramente statistico: il barman lo vedono tutte.
Scuola di vita.
Uno dei periodi più divertenti e formativi: penso di essere un quarantenne equilibrato proprio perché ho dato tutto quello che avevo da ragazzo, ho sfogato ogni istinto e di ogni genere.
Per quanti anni?
Cinque, quindi tutto il tempo dell’università: lavoravo cinque sere a settimana e terminavo alle sei del mattino, dormivo fino a mezzogiorno, poi mi allenavo in palestra, alle quattro ero in facoltà e studiavo. Dalle dieci di sera ero in pista per la nottata.
Fabio Testi sostiene di essere cresciuto senza complessi grazie ad altezza e fisico atletico.
Non sono mai stato particolarmente consapevole del mio aspetto, e poi sono stati gli altri a dirmi “bello”. Capisco solo che funziona, e in questo lavoro mi è servito tantissimo.
Quanto?
All’80 per cento, e soprattutto all’inizio; ma la commedia romantica un po’ lo impone: è difficile mettere in scena uno alto un metro e quaranta la cui bella del film si deve innamorare.
Prima si diceva convinto del suo Anselmo. Mentre di solito…
Sono sempre infastidito, iper critico, questa volta no, e la soddisfazione è enorme, è come aver messo un punto verso un percorso di ricerca durato quindici anni.
I critici l’hanno colpita molto?
Spesso, e il 95 per cento delle volte sono stato d’accordo con loro, riconoscevo l’errore o la superficialità, e non sempre è dipeso da me, c’è anche un regista alle spalle, c’è una corresponsabilità sul set.
Lele Mora racconta di lei: “È un integerrimo, non ha mai accettato compromessi”.
Uscito dal Grande Fratello ho chiesto consiglio a mia cugina, Alessia Ventura, e sono finito nella sua stessa agenzia; entrato nell’ufficio di Lele Mora, ho esordito con i miei paletti: “Non ho dubbi su due cose: la mia tifoseria calcistica (è juventino) e l’eterosessualità”.
Ben chiaro.
Meglio non cadere in equivoci fin dall’inizio, ma ovviamente l’ho detto scherzando. E poi i ruoli da omosessuale sono quelli che mi hanno portato più fortuna.
E qualche illazione…
Quelle ci sono sempre rispetto agli uomini di bell’aspetto: l’ho sentito dire di Raoul Bova, di Alessandro Gassmann…
Invece grazie ad “Amici” ha incontrato una serie di miti del cinema.
Una sfilza di star di Hollywood, solo che uno come Al Pacino è inavvicinabile, tutto il tempo per i cacchi suoi, mentre il vero mito è stato Harrison Ford: con lui sono riuscito a chiacchierare. (Ci pensa un attimo) In realtà gli ho rivolto una domanda non molto opportuna.
Quale?
“Perché uno come te è qua?”.
D’istinto.
Per me avevo davanti Indiana Jones, non Harrison Ford, e non capivo.
La replica?
Senza scomporsi mi ha regalato una risposta molto intelligente, una lezione: “Quanti anni hai?” 37. “Bene, tu sei cresciuto con i miei film, e questa trasmissione ha un pubblico molto giovane che non mi conosce: siccome continuo a fare l’attore, voglio che questi ragazzi sappiano chi sono”. Tutto questo ragionamento da uno di 70 anni.
E lei come si è sentito
Vecchio e ammirato per la sua imprenditorialità.
“Neanche io sono quello che sembro”, dice Anselmo nel film.
È necessario mantenere un nucleo ristretto di persone che ti conoscono realmente, una piccola riserva dentro una realtà professionale dove sei quasi costretto a condividere tutto, o quasi.
Indossa una maschera?
È anche una forma di rispetto verso le persone: se ho una giornata storta, e ovviamente può capitare, non la posso riversare su chi incontro e che magari mi chiede una foto; per questo cerco di sorridere lo stesso.
Si occupa di beneficenza.
Con un compagno d’università abbiamo realizzato uno studio di settore, e ci sono circa 14 mila piccole associazioni o Onlus che hanno due problemi: il fundraising e comunicare le proprie iniziative; abbiamo creato un portale per aiutarle e utilizziamo la mia immagine: siamo al settimo anno e abbiamo aiutato più di 400 gruppi (www.1caffe.org).
(Chiudo il taccuino, in copertina c’è l’immagine del Cervino, Argentero s’illumina)
Come mai?
Il mio sogno è scalarlo con mio padre. Io e lui. Prima o poi lo realizzo.
(Sicuro, lo farà).