il Fatto Quotidiano, 9 febbraio 2019
Finlandia: il reddito di base aiuta la salute, ma non il lavoro
Il reddito di base, pagato dallo Stato senza condizioni, migliora la salute e l’umore ma non aiuta a trovare lavoro (e neppure penalizza, però). È la conclusione a cui arriva l’agenzia Kela che gestisce il welfare della Finlandia dopo un esperimento durato due anni (2017-2018) e che ha coinvolto 2.000 beneficiari i cui comportamenti sono stati confrontati con quelli di un “gruppo di controllo” di 173.000 persone che hanno continuato a ricevere i normali ammortizzatori sociali. Il governo finlandese dell’ex premier Juha Sipilä aveva un obiettivo chiaro con questo esperimento: valutare se un reddito di base, pagato senza pretendere in cambio gli impegni alla formazione o ad accettare offerte di lavoro previste dal reddito di cittadinanza italiano, fosse più efficace nel permettere ai beneficiari di trovare un lavoro rispetto ai normali sussidi di disoccupazione.
I 2.000 beneficiari hanno quindi ricevuto 560 euro al mese per due anni a prescindere che fossero disoccupati o trovassero un lavoro, che lo cercassero o che rimanessero a casa. I normali sostegni pubblici si riducono se chi li riceve riesce ad aumentare i propri redditi da lavoro e spesso prevedono obblighi o hanno requisiti che finiscono per condizionare l’atteggiamento del beneficiario verso il lavoro (chi prende la cassa integrazione in Italia, per esempio, non può lavorare nel frattempo). L’ipotesi da verificare in Finlandia era la seguente: un reddito di base rende i lavoratori più inclini a lavorare, anche con orari e salari ridotti, o a mettersi in proprio e rischiare perché si può contare su un minimo garantito? O, viceversa, disincentiva il lavoro perché è meglio prendere poco senza far nulla piuttosto che faticare per salari bassi?
Lo scopo dell’esperimento è capire se conviene riformare il sistema di welfare finlandese e sostituire alcuni degli attuali sostegni con un reddito di base (mentre in Italia, finora, il reddito di cittadinanza è stato introdotto in aggiunta ai sussidi esistenti, con l’eccezione del Rei che viene inglobato). I risultati sono sorprendenti e inequivocabili, anche se si tratta di uno studio preliminare che dovrà essere approfondito. In un anno i beneficiari del reddito di base lavorano meno di mezza giornata in più degli altri (le persone nel gruppo di controllo che continuano a ricevere i normali ammortizzatori sociali): 49,64 giorni lavorati nel 2017 contro 49,25. E se sono liberi professionisti, guadagnano in media 21 euro annui in meno: 4.230 contro 4.251. «L’esperimento non ha effetti sulle condizioni lavorative nel primo anno», scrivono Kari Hamalainen, Ohto Kanninen, Miska Simanainen, Jouko Verho nel report.
Ci sono dei benefici osservabili, però. Chi riceve il reddito di base è molto meno stressato di chi è nel sistema tradizionale: si dichiara in buona o eccellente salute nel 55,4 per cento dei casi contro il 46,2, ha una capacità di concentrarsi buona o eccellente nel 56,7 per cento dei casi contro il 55,7, dice di «vivere in modo confortevole» nell’11,9 per cento delle risposte, mentre chi non prende il reddito di base si ferma al 7,4.
Emerge anche un effetto collaterale: nell’esperimento chi riceve il reddito di base ha comunque diritto agli ammortizzatori sociali di entità superiore, ma è meno propenso a chiederli. Questo forse si spiega con una riforma della burocrazia del settore, entrata in vigore proprio mentre partiva l’esperimento.
La Finlandia ha un tasso di disoccupazione del 7,6 per cento, l’Italia del 9,7, le due economie sono molto diverse. Ma due lezioni sembrano chiare dall’esperimento. Primo: non è affatto detto che garantire un livello minimo di reddito cambi l’approccio al mercato del lavoro. Secondo, e più importante: quando si vuole fare una riforma complessa, è bene aver chiari gli obiettivi in modo da poter stabilire se l’intervento produce o no i risultati sperati.