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 2019  febbraio 09 Sabato calendario

I neri se la prendono per le scarpe troppo bianche

In meno di una settimana due grandi marchi di abbigliamento, Adidas prima e Gucci poi, sono stati trascinati nel guano delle accuse di razzismo. Non è una settimana qualunque: negli Stati Uniti, infatti, febbraio è il Black History Month, ovvero il mese della storia dei neri, una ricorrenza anglosassone che ricorda, tramite rievocazione di eventi e storie di persone, la deportazione degli africani verso le Americhe e la loro marcia di quattro secoli nel Nuovo continente. Adidas è inciampata su un paio di scarpe ideate appositamente per la commemorazione. Le calzature, infatti, vendute a 180 dollari, erano interamente bianche, solo la soletta aveva la sigla CBC, ovvero “Celebrating Black Culture”, celebrare la cultura afro-americana. E per onorare i neri non sono sembrate adeguate. La casa si è scusata riconoscendo che le scarpe «non riflettono lo spirito e la filosofia con cui Adidas crede di dover riconoscere e onorare il Black History Month», e ha deciso di ritirare il prodotto dal mercato. Nel caso di Gucci, il prodotto incriminato è un maglione nero con un passamontagna annesso su cui sono disegnate delle labbra color rosso vivo (viene via a 890 dollari): per gli utenti di Twitter passava come una presa in giro di un viso africano, troppo somigliante alla pratica bianca di dipingersi il volto, tipica dell’Ottocento, per scimmiottare i tratti degli schiavi africani. Così, anche il marchio fiorentino ha fatto dietrofront: «Ci scusiamo per l’offesa causata dal maglione», si legge sulla dichiarazione dell’azienda, «Riteniamo che la diversità sia un valore fondamentale. Ci impegneremo per trasformare questo incidente in un’occasione di apprendimento». 

SCUSE INUTILI
E pure questo non è bastato a calmare gli animi: alcune persone su Twitter hanno sollecitato la società ad assumere persone di colore, altre hanno suggerito che fosse una trovata pubblicitaria, altre ancora hanno accusato Gucci di essere, in quanto marchio europeo, troppo ignorante sul patrimonio culturale americano. Ma questi due casi sono gli ultimi di una serie: a dicembre toccò a Prada ritirare la linea di accessori a forma di animali, “Pradamalia”, perché la scimmietta, sostenevano gli stakanovisti del politically correct, sembrava evocare la caricatura dei neri. La svedese H&M fu sepolta di contumelie quando fece indossare a un modello nero una felpa con la scritta «coolest monkey in the jungle», la scimmia più cool della giungla. Dolce & Gabbana sono stati tanto criticati per la pubblicità che giocava sugli stereotipi sui cinesi che hanno annullato la sfilata di Shanghai. La mannaia degli attivisti da tastiera ha colpito pure Dior: la campagna pubblicitaria ispirata alle tradizioni messicane è stata contestata per aver scelto l’attrice Jennifer Lawrence come protagonista, che di messicano non ha niente, e perché gli scatti erano stati fatti in California, altra deplorevole carenza di “messicanità”.

UN CAMPO MINATO
Zara, poi, pare essere il marchio che si destreggia peggio nel campo minato seminato dai benpensanti: l’anno scorso tolse una minigonna in jeans dai negozi perché aveva applicata una toppa simile a Pepe the Frog, cartone animato feticcio dei gruppi neonazisti. Nel 2014 mise in vendita un pigiama a strisce con una stella gialla sul petto: venne presa per un’uniforme dei campi di concentramento. In realtà, la stella voleva essere il distintivo di uno sceriffo. Ma quelli di Zara si sono messi nei guai anche per questioni non ebraiche: per una campagna che aveva come slogan «Love Your Curves», ama le tue curve, erano stati scelti due modelli particolarmente magri. Tra momenti sfortunati e pessime figure, le fisse degli utenti, e quindi di possibili clienti, giocano però la parte maggiore. E le case di abbigliamento decidono, sempre, di assecondarle: H&M, per esempio, ha assunto una “responsabile della diversità”. Nessuno si prende la briga di spiegare perché sono stati fatti dei passi falsi, se di questo si tratta, né pare che i produttori tengano alla creatività dei loro designer. Perché? I guadagni che porta la moda valgono più della moda in sé e di qualunque messaggio questa possa portare. Michael Jordan, per esempio, firmò una linea di calzature sportive e non si è mai sbilanciato politicamente perché, disse, «anche i repubblicani comprano le scarpe». Ancora più che piacere, la moda di oggi ha bisogno di non dispiacere.