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 2019  febbraio 09 Sabato calendario

Intervista al ministro Tria: «L’Italia si dimostri affidabile»

Oggi il principale interesse nazionale è «ristabilire la fiducia nei confronti dell’Italia, la fiducia dei cittadini e degli investitori, italiani e stranieri». Giovanni Tria lo afferma mentre le dita tamburellano sul tavolo, come a sottolineare la consapevolezza della difficoltà del momento, sicuro che sia proprio questa la chiave della ripresa difficile quanto necessaria. L’Italia è finita in una zona calda, certo più dell’immenso ufficio occupato dal ministro dell’Economia che richiede il conforto di un camino acceso. C’è l’economia ingolfata, la disputa violenta con la Francia e il duello senza fine sulla Tav che fomentano il rischio di una pericolosa recessione. «Dobbiamo sbloccare tutti i cantieri», ammette l’economista di Tor Vergata, e magari anche riporre le armi coi francesi con i quali assicura di intendersi. «Solo difficoltà di comunicazione», gli pare. Con Parigi, assicura, «non c’è alcuna ragione di conflitto economico».
Occorre lavorare anche su questo, come sull’immagine distorta dell’Italia gialloverde. «Dobbiamo dimostrare di essere affidabili - spiega il professore -. Prendiamo la Tav: non voglio entrare nel merito della questione costi/benefici - del resto ho detto più volte che ritengo sia un’opera utile da realizzare ed è chiaro che ci possono essere opinioni contrarie. Quando si parla di infrastrutture, e dunque degli investimenti a lungo termine necessari all’Italia, c’è bisogno di certezze».
Che succede, se vengono meno?
«La realtà è che non si possono attirare investimenti se quando si firmano i contratti può essere ritenuto legittimo pensare che un governo, qualunque esso sia, li possa rimettere in discussione, magari modificando il quadro legale in modo retroattivo».
Un gioco rischioso, in effetti.
«Dalla fiducia degli investitori dipende la competitività dell’Italia e la sua crescita reale. Dobbiamo essere attenti a queste dinamiche».
La stagnazione, o recessione che sia, si batte così?
«Recessione o stagnazione, il dibattito non mi interessa, sono pochi decimali di differenza. Mi interessa che la ripresa sia legata al rilancio di tutti gli investimenti pubblici e alla riapertura dei cantieri il prima possibile, soprattutto i nuovi. Il governo deve farlo».
Quali sono i vantaggi?
«C’è un risultato immediato di tipo keynesiano dei lavori che cominciano, e si configura il giusto ambiente in cui gli investitori privati possono trovare più redditizio far confluire i propri capitali. Dobbiamo dimostrare che chi investe in Italia può ottenere dei guadagni, creando un impatto anche dal lato dell’offerta, cosa che in genere viene anticipata dalle aspettative se il contesto è credibile. Sono cose che rimettono in moto la macchina».
Funziona?
«Sono convinto che con questa ricetta l’Italia abbia tutte le possibilità di crescere come il resto d’Europa. L’ho detto in Parlamento, di recente: non c’è manovra che tenga in assenza di fiducia, senso di sicurezza del quadro regolamentare e delle prospettive dell’economia». 
La Commissione Ue teme l’effetto dell’incertezza politica sul futuro dell’Italia. Quanto ci costa il valzer delle dichiarazioni che fanno pensare che nulla sia mai davvero definito?
«La stabilità politica, come quella sociale, è molto importante in economia per dare sicurezza agli interlocutori. Se paragonato con gli altri, il governo italiano ha uno dei consensi più alti in Parlamento. Ciò dovrebbe consentire di presentarsi come “stabile” ed appare paradossale che non si sfrutti appieno questa caratteristica. E che al contrario si comunichi un senso di incertezza politica. Oltretutto i fatti contraddicono questa presentazione della realtà».
Perché?
«Non è per colpa degli altri che non capiscono, ma di come noi rappresentiamo la realtà. Gli analisti prevedevano che questo governo avrebbe programmato spese pazze e portato il deficit a livelli stellari. Non è successo. Si potranno sollevare dubbi sulla correttezza delle scelte, ma non sulla loro natura quantitativa. È stato fondamentale evitare una procedura di debito eccessivo ed eliminare nel negoziato con la Commissione la vera incertezza, quella sulle intenzioni del governo circa la permanenza nell’euro. L’intesa sul rispetto delle regole europee è stata cruciale, perché abbiamo dimostrato di non essere un governo che immagina di poter abbandonare la moneta unica». 
Però siamo finiti sotto zero col Pil, ultimi in Europa.
«Non è un fatto inedito. L’Italia cresce da sempre un punto in meno della media europea. Se loro scendono a 1,4, noi andiamo a 0,4. C’è un divario, certo, però la questione non è drammatizzare il tasso di crescita trimestrale, bensì dire cosa fare per elevarlo. Si può fare. Gli indicatori suggeriscono una lieve ripresa in Europa per fine anno, il governo tedesco - che ha ampi margini di manovra - lavora a sostegno delle imprese che sono in crisi. È una buona notizia per l’Italia, sebbene non si tratti di un segnale acquisito: le fonti di incertezza sono tante. Ne abbiamo tolta qualcuna di mezzo, dobbiamo occuparci delle altre».
L’esito finale non è affatto acquisito. Cosa farete?
«Abbiamo approvato una legge di bilancio, dobbiamo attuarla. Parlo anzitutto di investimenti perché li considero cruciali per il futuro. Tuttavia dobbiamo intervenire sul piano regolamentare anche perché i fondi ci sono, gli stanziamenti non spesi degli anni precedenti sono abbondanti. Non sarà la mancanza di capitale a frenarci, può farlo la nostra capacità di operare. Lo stop agli investimenti ha catalizzato tutte le difficoltà strutturali del Paese. Se riusciremo a sbloccarli, buona parte dei vincoli scomparirà. Le misure come il reddito di cittadinanza avranno un importante ruolo di supporto alla crescita».
Davvero?
«Si potrà discutere se il moltiplicatore del reddito sarà basso o alto. Ma certamente non si potrà dire che è nullo. Sosterrà l’economia come sosterrà il reddito, il che è un motore per la stabilità sociale. Farà diventare positive le aspettative. Poi vedremo quello che accadrà».
Lo sa che servono risultati concreti?
«Lo faremo. Il problema è che la lotta politica in Italia fa scivolare in secondo piano gli interessi nazionali se c’è una compagna elettorale. Lo dico a chi pensa di fare polemica con il governo creando allarmismi, andando oltre l’esame della realtà oggettiva».
Un esempio?
«Quel titolo secondo cui arriverà una patrimoniale al 10 per cento crea un allarmismo che può avere effetti destabilizzanti».
È una voce che gira.
«A parte il fatto che non c’è alcuna intenzione di introdurre una patrimoniale, sarebbe una mossa suicida per il quadro economico. E’ una cosa senza senso. Un po’ di solidarietà nazionale sarebbe utile quando si parla del futuro dell’economia».
Si è chiesto chi mette in giro questa roba?
«Ci sono analisti che dicono “siete in difficoltà col debito, andrete a fondo, e l’unica via di uscita sarebbe la patrimoniale”. Non è un discorso da gente seria». 
C’è il problema delle clausole di salvaguardia. Oltre 20 miliardi per il 2020. Pensate di negoziarne lo sblocco con Bruxelles?
«Pierre Moscovici ed io diciamo la stessa cosa. Gli obiettivi concordati con l’Europa per il deficit strutturale non vengono toccati dall’attuale andamento della congiuntura. È chiaro che, se il quadro si aggravasse, i margini di negoziato ci sono e talvolta sono persino automatici. Spero di non doverli utilizzare, perché significherebbe che le cose vanno peggio di quanto pensiamo. Già nel discutere la manovra 2019, il rallentamento dell’economia è stato tenuto da conto».
Duelliamo con Parigi. Che danni può causare la disputa coi francesi?
«Non abbiamo nessun motivo economico di contrasto con la Francia. Abbiamo interessi in comune e anche una linea europea che tende a convergere. Certo, loro hanno una politica industriale più aggressiva della nostra, ma questa è la caratteristica del sistema francese, è più compatto e organizzato. Esiste un nazionalismo francese - visto ai tempi della guerra in Libia - che li porta a muoversi senza considerare intese preventive con l’Europa. Però, nella mia esperienza delle nostre discussioni sul cambiamento delle politiche di fondo europeo, ci siamo trovati sempre su posizioni più vicine ai francesi rispetto ad altri Paesi, a partire dall’esigenza di avere una convergenza fra Stati e non il contrario. Per questo spero di non dovermi porre il problema dei danni che potrebbero venire da quella che credo sia solo una incomprensione passeggera dovuta a difficoltà di comunicazione».
C’è un vertice bilaterale industriale franco-italiano a Parigi a fine mese. Ci andrà?
«Sono stato invitato, non solo io. In realtà quel giorno avrei già un impegno. È chiaro che se l’incontro ci sarà, andrò. Soprattutto se non andrà l’altro membro del governo. Qualcuno deve andare».