la Repubblica, 9 febbraio 2019
Storia letteraria del Parmigiano
Il Parmigiano Reggiano è già così famoso nel 1736 che il più grande seduttore della storia, Giacomo Casanova, ospite della nobile famiglia Bolognini a Sant’Angelo Lodigiano, acquista alcuni libri per la contessa Clementina e cita un “eccellente formaggio che per altro tutta l’Europa chiama Parmigiano, ma che in realtà non è di Parma ma di Lodi”. In quelle grasse campagne si produceva e, in poca parte purtroppo, ancora si produce il Granone, e tuttavia la fama del Parmigiano era storicamente così radicata che ancora quell’eccellente Grana ne prendeva il nome. Tutto, purché buono, era Parmigiano.
Lontana è la fama del formaggio di pasta dura e di solida stagionatura che si produce” nell’Isola del Tesoro” la quale comprende le province di Parma, Reggio Emilia e Modena, fra la riva sinistra del Po e quella del Reno, con tocchi di Bologna e di Mantova oltre Po. Qui cresce nei pascoli «un cocktail di erbe particolari che fa la fortuna di quel latte», mi spiegava sorridendo Giuseppe Medici, di Sassuolo, economista agrario, esperto massimo. «Hanno provato a nutrire le vacche con altri mangimi, con polpe di barbabietola, ma le forme si sono spaccate per l’acidità». Insomma, o quel cocktail di erba dei pascoli o niente Parmigiano Reggiano autentico.
Così noto ai palati fini che già ne scrive frate Salimbene de Adam nel Duecento, ma soprattutto Giovanni Boccaccio: nel Decamerone, quando vuole connotare il paese di Bengodi dove “si legano le vigne con le salsicce (...)”, egli favoleggia di una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niun altra cosa facevan che maccheroni e raviuoli”. Il massimo della goduria alimentare, e siamo ancora a metà Trecento. In quei secoli sono soprattutto i monasteri a custodire e a realizzare ricette e produzioni alimentari, e da queste bande, non a caso, c’è una delle tre Certose di Chiaravalle, detta della Colomba.
Per il cibo, in genere, si risale fino agli Etruschi e ai Romani, ma i caci erano cose da pastori i quali avevano fama di primitivi e feroci. Anche se dicono che l’imperatore Antonino Pio morisse di indigestione essendosi ingozzato coi legionari di lardo, formaggio e vino acidulo ( la posca). L’epigrammista Marziale, in età augustea, parla pure di un” caseus lunensis”, ma è un formaggio misto pecora/vacca tuttora prodotto a Luni. Torniamo al Parmigiano Reggiano: nel ’400 lo loda il grande umanista Platina e nel 1612 il duca di Parma, Ranuccio I Farnese, delimita con un bando i territori dai quali deve rigorosamente provenire” il formaggio chiamato di Parma”. Molto pregiato da maggio all’autunno, il “maggengo”, e meno pregiato, o diverso, il” vernengo” ( ne mangiai in gioventù di ottimo, fresco, innaffiato di Lambrusco). La fama di questo eccezionale formaggio si è sparsa per l’Europa, in Francia soprattutto grazie alla grande cuisine. Dicono che Molière ne chiedesse una scaglia in fin di vita. Di sicuro gli enciclopedisti Diderot e D’Alembert ne erano ghiotti e pure Napoleone. Nella Parma di Stendhal gli anolini sono Parmigiano puro. Nella Ravenna di Byron i cappelletti quasi. Si industriano molto a venderlo i reggiani, specie quelli della Società Bibbianese. A Roma, ad esempio, senti chiedere” un etto di Reggiano”. Poi nel 1928, nel 1934, nel 1951 e più tardi sono venuti, i molto meritori Consorzi di produzione e tutela e i disciplinari. Ma inadeguate restano le difese europee soprattutto, contro le contraffazioni dei Parmesan e dei Reggianitos. Guai a essere troppo buoni.