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 2019  febbraio 09 Sabato calendario

Le parole giuste per dare inizio a un capolavoro

Quando il Coniglio Bianco appare davanti al Re Rosso per prestare la sua testimonianza nel Paese delle Meraviglie, dice di non sapere da dove cominciare. «Comincia dal principio», gli dice il Re, «e continua fino alla fine. Poi fermati». Ma che cos’è questo principio? San Giovanni, pensando indubbiamente di chiarire così il complesso dogma cristiano, scrisse che in principio era il Verbo. Secoli dopo, nella prima parte del Faust, l’inquieto e deluso dottore cerca in quella prima parola la comprensione che sente di non avere. Lutero aveva tradotto quel Verbo ( logos) come Wort, "parola", perdendo così gli altri significati impliciti nel vocabolo greco, e Faust si propone di leggerlo come "Sinn", "Kraft" e "Tat" – "pensiero" "forza" e "azione". Per Faust, al principio del libro sacro ci sono tutte queste cose. Le parole iniziali di ogni testo devono far presentire le pagine seguenti. Lentamente o bruscamente, riassumendo l’argomento o distraendo il lettore perché non indovini il finale, indicando il tono della narrazione che verrà o dando falsi indizi, scusandosi o vantandosi dell’atteggiamento dell’autore, le prime parole sono un gesto di disvelamento o di sfida lanciato dal punto finale di un libro al lettore che inizia quel viaggio. Per ragioni generalmente misteriose, alcune di queste aperture diventano così famose da trasformarsi in luoghi comuni, mentre altre sono relegate nell’oblio come innamoramenti fugaci. Qualsiasi lettore riconosce l’inizio terrificante de La metamorfosi di Kafka «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto». Nessuno può dimenticare l’inappellabile inizio del Contratto sociale di Rousseau: «L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene». Perché tutti ricordiamo il musicale inizio di Le rovine circolari di Borges («Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime») e non con la stessa facilità «Ci piaceva la casa, perché oltre ad essere spaziosa e antica» di Casa occupata di Cortázar? Forse per la forza di quell’inaudito aggettivo "unanime", tanto più memorabile dei banali pur se esatti epiteti di "spaziosa e antica"? Questo suggerisce che forse ci lasciamo più facilmente sedurre dal tono degli inizi più che dal loro significato. «Musa, quell’uom di multiforme ingegno dimmi», incipit dell’Odissea e «Cantami, o Diva, del pelide Achille l’ira funesta» dell’Iliade: la nostra capacità di ricordarli dipende, salvo conoscere il greco antico, dalla traduzione che scegliamo per leggerle.


Tralasciando le pagine preliminari che Cervantes scrisse per il suo Chisciotte, anche chi non ha letto il romanzo conosce a memoria le prime parole ormai famose del primo capitolo. Tuttavia, nonostante i molti commenti apparsi dopo la pubblicazione del libro nel 1605 non sappiamo nulla di come sia stato composto il Don Chisciotte. Non si conserva un manoscritto di Cervantes di suo pugno, non sappiamo quali furono i primi abbozzi, i suoi dubbi, quali altre parole di apertura furono immaginate e scartate, quale fu la sua ispirazione iniziale.
Goethe diceva che prima di scrivere un libro bisognava avere «tutto in testa», perché «un libro non inizia necessariamente con la prima frase». Probabilmente è vero, ma c’è qualcosa di ineffabile nelle parole iniziali che sono per il lettore l’"apriti sesamo" di un testo. «Arma virumque cano», «Nel mezzo del cammin di nostra vita», «Call me Ishmael», «Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», «Longtemps je me suis couché de bonne heure», sono diventate, nel corso delle nostre letture, una sorta di catalogo abbreviato della letteratura canonica universale. Al piacere della citazione riconosciuta ( dell’Eneide, la Divina Commedia, Moby Dick, Anna Karenina, Alla ricerca del tempo perduto) si aggiunge l’emozione di iniziare un viaggio, il fascino di un’avventura condivisa. A volte, l’archeologia letteraria ci permette di intravedere la preistoria di un’opera. Boccaccio ci racconta che Dante cominciò a scrivere la sua Commedia in latino prima di scegliere la lingua fiorentina, e che le sue prime parole furono "ultima regna canam" ("canterò i regni ultraterreni") al posto della selva oscura e del cammino della vita. Sappiamo, dal manoscritto conservato presso la Fondazione Bodmer di Ginevra, che Proust immaginò le parole «Pendant bien des années, chaque soir, quand je venais me coucher», prima di preferire la frase ormai celebre. Il dattiloscritto di Cent’anni di solitudine (conservato presso l’Università del Texas) ci rivela nella prima pagina una sola correzione: la prima frase che annuncia la scoperta del ghiaccio è priva di alterazioni, ma i primi due paragrafi diventano una cosa sola.


Louis Aragon, in disaccordo con Goethe, dichiara in Je n’ai jamais appris à écrire che la scrittura non si realizza dopo aver concepito l’intera opera, ma nell’incipit, dietro alle parole iniziali e anche a partire da esse. Aragon non intendeva con "parole iniziali" quelle che appaiono stampate nella prima riga di un libro, ma quella prima illuminazione verbale che ha uno scrittore, una sorta di epifania letteraria a partire dalla quale inizia a esistere un’opera. «Un racconto non ha né principio né fine», sono le prime parole di Fine di una storia di Graham Greene. «Si sceglie arbitrariamente un certo momento dell’esperienza dal quale guardare indietro, o dal quale guardare in avanti».


Quel momento potrebbe essere fuori dal quadro della storia. Sappiamo che nel caso del suo Dr Jekyll e Mr Hyde quel momento fu per Stevenson un incubo, uno dei tanti in cui sentiva che quella che lui chiamava "la strega notturna" lo prendeva per la gola e gli impediva di respirare. L’incubo non era verbale ma fisico: la sensazione di essere posseduto da un temibile e odiato colore marrone. Per Flaubert, la sua Madame Bovary non cominciò con quel tuttora misterioso "nous" degli studenti che ricevono in classe il nuovo alunno Charles Bovary, ma con la breve lettura di una notizia di cronaca nera che gli ispirò non solo l’argomento, ma anche lo stile scorrevole del libro.


«Ieri sera ho cominciato il mio romanzo», scrive Flaubert all’amica Louise Colet il 20 settembre 1851. «Intravedo adesso delle difficoltà di stile che mi terrorizzano. Non è semplice essere semplici. Ho paura di cadere in un Paul de Kock o in un Balzac chateaubrianizzato». Il lettore di Madame Bovarysente il desiderio di consolare Flaubert e di dirgli che sicuramente non è andata così.


Ci sono prime parole di opere illustri che non ci dicono nulla della genialità che viene dopo o almeno non ne rimaniamo incantati. Non credo che l’incipit «Eh bien, mon prince, Gêne et Lucques ne sont plus que des apanages, des proprietà, de la famille Buonaparte» faccia intuire a uno sprovveduto che sta cominciando a leggere Guerra e pace, o che «Uno spettro si aggira per l’Europa» sia l’introduzione al Manifesto del Partito comunista.


D’altra parte, ci sono degli inizi così geniali che il lettore non può fare a meno di sentirsi deluso dalle pagine seguenti. Per esempio, non so se Monsieur Teste di Valéry mantiene la promessa del suo ammirevole inizio, «La stupidità non è il mio forte». Noi lettori sentiamo che le parole con cui inizia un libro sono essenziali, forse più delle ultime, perché sappiamo che ogni conclusione ha qualcosa di Itaca e che una volta che vi siamo giunti non ci sono più viaggi né avventure. La frase iniziale di un testo fa presagire l’arrivo a quel porto anelato. «Se sarò l’eroe della mia vita, o se quel ruolo sarà assegnato a un altro, le pagine seguenti lo diranno», scrive Dickens all’inizio di David Copperfield. Altrettanto si può dire di ogni prima parola.
(Traduzione di Luis E. Moriones)