Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  febbraio 09 Sabato calendario

Se ne vanno gli individualisti. E chi resta preferisce costruire uno Stato socialista

Oltre all’occasionale cenno alla fuga dei cervelli che scappano all’estero, l’attenzione in Italia alla migrazione è quasi completamente focalizzata sull’impatto domestico dei nuovi arrivati in Patria. Il tema è molto politico e molto emotivo. Per considerarlo con serenità, forse è utile estraniarci, guardando all’esperienza di una parte non mediterranea dell’Occidente. Tra il 1850 e il 1920 l’allora miserevole Scandinavia perse il 25% dei suoi abitanti, fuggiti all’estero in cerca di lavoro e, in fondo, di qualcosa da mangiare. L’epoca tra i due secoli vide molti esodi del genere, con interi popoli in movimento, ma i dati migliori sono quelli dei pignoli paesi nordici. Ora l’economista svedese Anne Sofie Beck Knudson, dell’università di Lund, in un recente studio (Those Who Stayed: Individualism, Self-Selection and Cultural Change during the Age of Mass Migration) ha riaperto quegli archivi per esaminare l’effetto a lungo termine dell’esodo su quelli rimasti a casa. Secondo un’ipotesi comunemente accettata, ad emigrare sono perlopiù le persone dal carattere più individualista, quelli che, in termini economici, «soffrono un costo minore» nell’abbandonare i loro rapporti sociali pre-esistenti. La studiosa si è posta l’interessante problema di vedere quale fosse l’impatto quando un paese perde in maniera massiccia la parte della popolazione più portata alle iniziative individualistiche, ipotizzando che con l’uscita dei più attivi crescesse il relativo peso degli abitanti stanziali, rendendo pertanto la nazione mediamente più conformista e omogenea, e dunque socialmente più incline al collettivismo e al conformismo sociale.
Però, mentre era relativamente facile contare il numero di individui che partivano, non era altrettanto semplice dire quanto questi fossero di più o di meno propensi all’individualismo, specialmente su larga scala. Qui la ricercatrice ha impiegato una forma di jujitsu accademico, utilizzando come indice dell’inclinazione anti-conformista la tendenza di dare nomi insoliti ai propri figli… In altre parole, l’assunto era di supporre che più fossero statisticamente rari i nomi della prole, allora più tendenti all’anticonformismo sarebbero stati gli ambiti familiari in cui quei nomi venivano scelti.
Partendo da dati sugli emigrati dalla Svezia, la Norvegia e la Danimarca nel periodo citato, la Knudson ha ottenuto risultati che indicherebbero come: «gli individualisti avevano una maggiore probabilità di emigrare che non i collettivisti, e che i paesi scandinavi sarebbero oggi più individualistici e più culturalmente diversi se l’emigrazione non fosse mai avvenuta». Ciò in quanto il cambiamento culturale che si è verificato in questi paesi: «è stato sufficientemente profondo da lasciare un impatto a lungo termine sulla cultura scandinava contemporanea».
I risultati saranno controversi, specialmente in vista dell’implicazione che i paesi diventino più disposti al collettivismo in rapporto a quanto manchi gente disposta ad agire in proprio pur di migliorare la loro condizione di vita. Forniscono però un’intrigante ipotesi per spiegare come mai la Scandinavia, che una volta esportava principalmente dei brutali razziatori vichinghi, è oggi più nota per le tranquille socialdemocrazie, le fotomodelle bionde e la produzione di mobili in legno chiaro.