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 2019  febbraio 08 Venerdì calendario

India, le spese faraoniche di Modi

Dintorni della città di Rajpipla, stato del Gujarat, nel nord ovest dell’India, quasi al confine con il Pakistan: il premier Narendra Modi, vestito in bianco immacolato, è da solo su un grande palco che non arriva alle dita dei piedi di un’enorme statua che incombe altissima. Indicando il colosso dietro di sé, Modi scandisce solennemente le parole: «È una data che il nostro popolo non dimenticherà. Il futuro del nostro Paese sarà grande come questo simbolo». 
Dalla cerimonia del 31 ottobre dell’anno scorso sono passati pochi mesi. Da quel giorno l’India vanta il record del monumento più grande del mondo: alto 182 metri (il doppio della Statua della Libertà) è dedicato al leader nazionalista Vallabhbhai Patel, ministro dell’Interno ai tempi dell’indipendenza. Ma il primato della Statua dell’Unità, come si chiama ufficialmente, costata la bellezza di 380 milioni di euro, è destinato a essere solo temporaneo. Lo stesso Modi ha già avviato la costruzione di un altro monumento da 212 metri sulla costa vicina a Mumbai (costo: 400 milioni, inaugurazione nel 2021) e già avviato la realizzazione di un altro colosso da 221 metri nell’Uttar Pradesh. 
In un Paese che manca di infrastrutture fondamentali come sistemi fognari, linee ferroviarie o stradali e in cui 70 milioni di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno spendere più di 1 miliardo per tre colossali statue potrebbe sembrare un’assurdità. Ma la prospettiva cambia se la si vede dal punto di vista di un politico che ha il problema immediato di vincere le elezioni in calendario tra aprile e maggio. Ed è proprio questa la prossima sfida di Modi. Nel 2014 ha prevalso nel nome dell’Hindutva, il sovranismo in versione indù, ora deve raddoppiare. E cerca di farlo usando la sua dote migliore: la capacità di far risuonare «sentimenti, immagini e simboli», come ha scritto Pankaj Mishra, studioso indiano trasferito da anni a Londra e di cui Mondadori ha appena pubblicato L’età della rabbia. Secondo Mishra, Modi è fratello, il fratello meno conosciuto ma altrettanto abile, di sovranisti autoritari come Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin. E la sua ascesa è una delle più tipiche espressioni del fenomeno sovranista nel suo complesso. La costruzione di miti sul passato, l’idealismo retorico sui concetti di nazione, razza e cultura fanno parte del suo armamentario di base. Così come l’individuazione di un nemico. La statua in costruzione a Mumbai rappresenta Shivaji, marajà di Bajapur, che nel XVII secolo guidò il suo popolo in una guerra vittoriosa contro la dinastia Mogul, musulmana. Il monumento che sorgerà nell’Uttar Pradesh è dedicato invece al dio Rama, uno dei nomi più sacri dell’Olimpo induista. E sarà quest’ultima statua a diventare, con tutta probabilità, uno dei temi centrali della campagna elettorale che sta per iniziare. Per costruirla Modi ha scelto la città di Ayodhya, dove secondo le antiche scritture Rama è nato. Ma proprio nel luogo natale della divinità fu costruita nel XVI secolo una moschea dedicata a Babur, primo sovrano Mogul. Nel 1992 150mila fedeli induisti presero d’assalto il tempio fino a distruggerlo. Negli scontri che seguirono oltre 2mila persone, in gran parte musulmani, furono uccise. Molti esponenti del Bharatiya Janata party, il partito del Popolo indiano, compreso lo stesso Modi, furono messi sotto accusa per aver fomentato gli incidenti.
Ora, a più di 25 anni di distanza, il nuovo monumento rischia di riaccendere la tensione, ma dal punto di vista di Modi e dei suoi può rivelarsi la carta giusta per chiamare a raccolta gli elettori. Per il momento il BJP è di gran lunga in testa in tutti i sondaggi. I tradizionali avversari dell’Indian National Congress continuano a essere appesantiti da una leadership che appare tutt’altro che carismatica. Al vertice c’è l’«italiano» Rahul Gandhi, figlio della piemontese Sonia Maino e di Rajiv Gandhi. Il bisnonno Jawaharlal Nehru, la nonna Indira e il padre Rajiv (ucciso nel 1991) hanno tutti occupato la poltrona di primo ministro, la madre è presidente del partito. Lui nel passato è sembrato accettare l’incarico di guida politica quasi più per dovere dinastico che per intima vocazione. Nelle ultime settimane ha chiamato a fargli da spalla la sorella Priyanka, che dei due è sicuramente la più popolare e che in passato si era sempre rifiutata di assumere ruoli di primo piano per dedicarsi alla famiglia. Ora guiderà la campagna elettorale nella parte orientale dell’Uttar Pradesh, primo stato indiano per popolazione, considerato terreno di battaglia decisivo per la vittoria finale. L’incarico è importante ma la sua discesa in campo ha un valore soprattutto simbolico. È lei che sembra aver ereditato dalla nonna Indira, a cui tra l’altro assomiglia non poco, l’abilità e la naturalezza dei grandi politici. Dalla sua ha la forza di un nome che si identifica con la storia stessa dell’India. 
Modi ne è consapevole e non potendo vantare gli stessi quarti di nobiltà indipendentista (il Bjp è stato fondato solo negli anni Settanta) ha cercato di ovviare proprio con la guerra delle statue. Patel, a cui è stata dedicata quella inaugurata nel Gujarat, faceva parte del partito del Congresso, ma era il rivale che da destra contendeva la leadership al Pandit Nehru, bisnonno di Rahul e Priyanka. Innalzargli un monumento significa rivendicare la continuità storica dell’odierno pensiero sovranista.