Illies, partiamo da qui. Che cosa ha rappresentato per gli artisti la scoperta delle nuvole?
«Una rivoluzione. All’inizio dell’Ottocento gli artisti francesi che arrivano a Roma, a Villa Medici, cominciano a dipingere soltanto nuvole. I primi sono Pierre-Henri de Valenciennes e Simon Denis. Il paradosso vuole che proprio nella città dei papi il nuovo sguardo verso il cielo sia totalmente laico. I pittori con i colori trasportabili nei tubetti che si asciugano in trenta minuti iniziano a realizzare opere anche esclusivamente per sé. Angeli e madonne restano fuori dalla tela: le nuvole non sono più un cuscino per santi. Corot e Turner, nella campagna romana, fanno lo stesso. L’invenzione delle nuvole è questa. Rappresenta la prima arte quasi astratta e il momento in cui la pittura scopre la velocità.
Dipingere le nuvole è difficile perché si tratta di oggetti in continuo movimento. È una sfida, eppure qualcuno la vince, proprio qui a Roma».
Oltre alle nuvole, c’è un altro elemento naturale fondamentale per gli artisti europei di quegli anni: il Vesuvio, che nel suo libro viene definito il "Massiccio centrale del Romanticismo tedesco".
«Nel periodo romantico c’è una certa tendenza tedesca a colonizzare idealmente l’Italia e i suoi luoghi. Ma con il Vesuvio succede qualcosa di diverso. Il rapporto di appropriazione non è immediato. Penso a Goethe. Nel 1787 sale sul Vesuvio più volte: ha paura, ma al tempo stesso è mosso dall’interesse geologico e dalla smania tutta germanica per la catalogazione. Eppure non riesce a capire il vulcano. Finché, un giorno, dalla terrazza di Capodimonte, lo vede gettare fuoco all’improvviso. In quel preciso attimo la catastrofe diventa un’immagine, un quadro visto da lontano: Goethe stesso realizzerà un disegno. La distanza trasforma l’esperienza in un momento estetico e la paura in senso del sublime. Goethe addomestica il Vesuvio, che, da quel momento, sulle tele dei pittori diventa una pentola che bolle con il caratteristico sbuffo».
Nella geografia che lei traccia del Romanticismo in Italia non può mancare Olevano, il paesino alle porte di Roma che diventa un’improbabile colonia di artisti tedeschi. Perché viene scelto proprio quel luogo che porta ancora le vie intitolate ai pittori?
«È un mistero anche per chi l’ha studiato come me. Nel 1820 Anton Koch, Heinrich Reinhold e Franz Horny, tra i grandi del Romanticismo tedesco, sono a Olevano. Perché lo scelgono? Forse perché le strade strette gli ricordano i villaggi in cui sono nati? Non lo so. In Italia i pittori arrivano per due ragioni: la luce e la bellezza delle donne. È una tradizione che è andata avanti: fino alla fine del Novecento a Olevano sono continuati a nascere bambini biondissimi…».
Il pittore Friedrich Overbeck, nel 1828, dipinge "L’Italia e la Germania": un quadro in cui le due nazioni sono rappresentate da due malinconiche ragazze che si tengono per mano…
«Quel quadro sintetizza un’amicizia del tutto simbolica. Storicamente l’amore dei tedeschi per l’Italia non viene assolutamente corrisposto ed è difficile da sopportare (ride). Il Paese diventa la loro Arcadia, la terra della storia, della religione, della bellezza, del vino e soprattutto della nostalgia».
C’è qualcosa che oggi sopravvive dello spirito del Grand Tour?
«Il Grand Tour come idea e l’Italia come Paese della nostalgia mantengono la loro attualità. Ma, con le distanze che si sono accorciate, è un’esperienza culturale che si è allargata soprattutto ai viaggiatori asiatici. La cosa meravigliosa di questo tempo è che ognuno può crearsi il suo Grand Tour personale con le proprie stazioni da raggiungere. Il mio è fatto dai film di Antonioni, dalle opere di Fontana, Morandi, Gio Ponti e, in generale, dall’Italia degli anni Sessanta: quel momento magico in cui questi geni convivevano tutti insieme».
Prima dell’"Invenzione delle nuvole", ha pubblicato "1913", dove ricostruisce, mese per mese, l’anno che precede il disastro della Grande guerra, la cronaca e i movimenti dei personaggi della storia e della cultura. Ancora il passato…
«Il passato per me è come il presente. Il 1820 o il 1850 sono vicinissimi. Scrivendo, voglio comprimere il tempo, capire che cos’è veramente. La realtà di oggi non risulta necessariamente in primo piano per me».
La sua sembra proprio una fuga dalla realtà.
«Non sono nostalgico. Non penso che fosse tutto meglio prima. Ma credo che si sappia troppo poco delle nostre radici, di quello che ci ha portato fino a dove siamo.
Quando, nel 2012, ho scritto 1913, si parlava solo di euro. Ho voluto dimostrare come, un secolo fa, l’Europa fosse già una cultura comune. Ma non mi ero fossilizzato sul 1913, quel libro nasce dal tentativo fallito di raccontare il 1929 e il 1948».
Come ha scoperto che suo padre nel 1944 ha combattuto a Montecassino contro Curzio Malaparte?
«Mio padre aveva appena diciotto anni, quando dovette combattere a Montecassino. Sopravvisse, morì nel 1982. Mi ha lasciato il suo diario manoscritto con le annotazioni giorno per giorno delle crudeltà e delle banalità della guerra. Quest’anno, leggendo La pelle di Malaparte, a un tratto ho realizzato che mio padre stava combattendo contro gli americani a Montecassino e il loro ufficiale di collegamento Curzio Malaparte. È stato un momento molto toccante: la storia personale si è improvvisamente connessa con quello che stavo leggendo. Sto approfondendo questa vicenda, ma non sono sicuro che sarò in grado di scriverne».