Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  febbraio 08 Venerdì calendario

Biografia di Mia Farrow

Mia Farrow (María de Lourdes Villiers Farrow), nata a Los Angeles il 9 febbraio 1945 (74 anni). Attrice. «Ci sono 127 tipi di svitati al mondo. Mia è il numero 116» (Roman Polanski) • Terza dei sette figli di due importanti personaggi di Hollywood, il regista australiano John Farrow (1904-1963) e l’attrice irlandese Maureen O’Sullivan (1911-1998), entrambi cattolici praticanti. «Educata secondo la religione cattolica, ebbe una crisi isterica quando vide la prima suora. Si dimostrò presto una bambina volitiva, capricciosa e viziata» (Giuseppe Ballaris). «A nove anni è colpita dalla poliomielite, che contribuisce a caratterizzarne l’aspetto fisico, fragile e minuto, con uno sguardo indifeso dai tratti malinconici» (Gianni Canova). «A scuola non era una alunna diligente, ma amava le recite, e organizzava gli spettacoli di Natale per i poveri, che accoglieva nella sua compagnia in cambio di un versamento simbolico da devolvere per quelli ancora più poveri. Uscita di scuola, affrontò subito Broadway come Cecily dell’Ernesto di Oscar Wilde, tanto che Vivien Leigh dovette amaramente constatare che “è nata una stella”» (Paolo Guzzanti). «Vengo da una famiglia di attori, ma da piccola volevo fare tutt’altro. Prima volevo fare il pompiere, poi la suora, poi il medico, ma crescendo a Beverly Hills tutte le famiglie avevano almeno un parente che faceva cinema. Tutti i bambini crescevano con l’idea di fare cinema perché era una città che ruotava attorno al cinema. Pubblicisti, avvocati, medici: tutto ruotava intorno alle star. Il mio padrino è stato George Cukor, la mia madrina la giornalista Louella Parsons. Il primo lavoro è stato L’importanza di essere Ernesto a Broadway. Mio padre era morto da poco, e anche mio fratello era morto in un incidente aereo, e io ho sentito che era il momento di occuparmi della famiglia. Così, visto che avevo studiato recitazione, mi sono messa a fare teatro». «Poi diventò protagonista della serie televisiva Peyton Place e a 21 anni si prese una cotta per Frank Sinatra, che era un amico di casa, del padre e della madre. […] E quindi mise al mondo, per Roman Polanski, Rosemary’s Baby, film satanico in cui Bene e Male sono in faustiano conflitto e lei combatte con il suo volto cattolico, pallido, melanconico e determinato dalla parte del bene, della madre» (Guzzanti). «Come è stato il primo incontro con lui? Secondo lei, perché l’ha scelta nel ruolo di Rosemary? “In realtà non ero la prima scelta. Lui finge di non ricordarlo, forse perché anche lui non era la prima scelta come regista. Il libro era un best-seller enorme e il produttore William Castle, che di solito dirigeva B-movie horror, aveva pensato a un altro cast. Io sono stata scelta perché tutti gli altri attori lo avevano rifiutato. Il mio marito di allora [Sinatra – ndr] lesse il copione e mi disse “Non ti ci vedo proprio”, e improvvisamente non mi ci vedevo neanch’io, perché quando sei tanto giovane sei insicura. La prima scelta per il ruolo era Jane Fonda, una scelta ovvia perché Rosemary doveva essere una ragazza ventisettenne proveniente dalle campagne di Omaha. Io a Omaha neanche ero mai stata, e non avevo il fisico adatto a una gravidanza, che poi era il motivo per cui Rosemary viene scelta dai vicini. Jane Fonda era più tipicamente americana di me, ma non ha voluto. E credo che la prima scelta per il marito fosse Robert Redford. John Cassavetes è stato fantastico nel ruolo, ed è stato interessante vedere due registi di quel calibro discutere su come sviluppare una scena. Cassavetes da regista era molto libero, Roman invece è estremamente preciso, dunque inevitabilmente si sono scontrati. […] Io ero giovanissima, credo di aver compiuto 21 anni durante le riprese. […] Durante le riprese la mia vita cadde a pezzi. Roman Polanski e sua moglie Sharon Tate praticamente mi adottarono, Sharon divenne la mia sorella maggiore e Roman un fratello. Sono molto grata loro, e mi dispiace davvero tanto che Sharon sia stata uccisa in quel modo”» (Marco Triolo). «Con Roman la precisione nell’organizzare le inquadrature era fondamentale, e se avevi un bicchiere in mano nel modo sbagliato era un problema: non c’era spazio per l’improvvisazione. Ricordo che gli piaceva recitare: non voleva parlare della scena, ma la recitava per mostrarmi come farla, mi trasmetteva esattamente quello che voleva. Aveva questo adorabile accento polacco, mi faceva la scena e io capivo cosa voleva. Ho lavorato con tanti registi diversi, e Polanski è quello che aiuta di più». Nel 1968, oltre che in Rosemary’s Baby, apparve in Cerimonia segreta di Joseph Losey, nel ruolo della coprotagonista al fianco di Elizabeth Taylor.  «Elizabeth Taylor era circondata da una schiera di truccatori e parrucchieri senza i quali non faceva un passo. Aveva un modo di fare molto materno e si preoccupava per me. A qualsiasi ora mi offriva dei Margarita che io non ero assolutamente in grado di bere, così li gettavo di nascosto nel vaso dei fiori. Era sempre euforica e sorridente, nascondeva i problemi con un eccesso di allegria. All’epoca era sposata con Richard Burton, che la aspettava nel camerino dopo i ciak. Con noi c’era anche Robert Mitchum, grande amico di mio padre John Farrow. Un giorno mi ha presa in disparte, e per mettere in chiaro le cose tra noi mi ha detto: “Ho avuto una vita difficile e ho fatto tante cose brutte, ma l’incesto è una cosa che non fa per me”». «Nel 1974 è al fianco di R. Redford in Il grande Gatsby di J. Clayton, tratto dal romanzo di F.S. Fitzgerald, in cui interpreta una ricca signora in cerca di avventure, mentre nel 1977 in Un matrimonio di R. Altman nasconde sotto una patina di ingenuità un’implacabile ninfomania. È tuttavia l’incontro con W. Allen (che diventa suo marito) a dare una svolta alla sua carriera: il prolifico artista la utilizza in tutti i suoi film tra gli anni ’80 e l’inizio dei ’90 (Zelig, 1983; Broadway Danny Rose, 1984; La rosa purpurea del Cairo, 1985; Hannah e le sue sorelle, 1986; Un’altra donna, 1988; Alice, 1990), consacrandola definitivamente come una delle maggiori attrici del panorama cinematografico mondiale. Dopo il burrascoso divorzio da Allen interpreta Tre vedove e un delitto (1994) di J. Irvin. È poi una diabolica bambinaia in Omen: il presagio (2006) di J. Moore e la nonna che racconta la favola al nipote in Arthur e il popolo dei Minimei (2006) di L. Besson; dimostra una grazia antica nel ruolo dell’assidua cliente della videoteca di Be Kind Rewind – Gli acchiappafilm (2008) di M. Gondry» (Canova). Data al 2011 la sua ultima apparizione cinematografica, in Dark Horse di Todd Solondz; in seguito ha recitato solo a Broadway nel 2014, in Love Letters di A.R. Gurney, offrendo un’interpretazione acclamata dalla critica. «Oggi sento di non avere più voglia di recitare al cinema. Adesso non voglio più vivere distaccata da tutto come quando recitavo: voglio concentrarmi su ciò che accade nel mondo, e sento che la recitazione mi distrae. Ho sempre avuto interessi molteplici e sono disorganizzata. Se una cosa cattura la mia mente per giorni, ne sono ossessionata. […] Dovrebbero offrirmi un progetto davvero interessante per farmi accettare un altro film. […] A questa età non so davvero quale ruolo potrei desiderare, ma voglio che sia adatto a come sono oggi. Noi amiamo Maggie Smith o Judi Dench non perché siano giovanili, ma perché sono se stesse» • Dal 2000 la Farrow è ambasciatrice di buona volontà dell’Unicef, impegno cui si dedica intensamente, visitando spesso alcuni degli scenari più tormentati del pianeta, dall’Africa ai Balcani, e raccogliendo fondi per le relative campagne umanitarie. «Guardo il più possibile, cerco di capire che cosa fa l’Unicef, quali sono gli obiettivi da raggiungere. Soprattutto ascolto molto la gente che mi parla dei suoi bisogni. Cerco di rappresentare al meglio l’Unicef e di aiutarla a raggiungere lo scopo. L’Unicef è capace di fare ciò che molte leadership politiche non sono in grado di fare. Quando lascio quei posti, torno in America e mi rivolgo ai mass media, parlo e cerco di raccontare meglio che posso le cose che ho imparato. La gente mi ascolta perché ha fiducia in me» (ad Alain Elkann). «Per diffondere il messaggio, ha preso possesso dei social media, in special modo di Twitter. "Adoro Twitter: credo che sia uno strumento incredibile per la lotta ai mali della società. La comunicazione e l’informazione sono armi potentissime, e internet ti permette di raggiungere persone da ogni parte del mondo. Credo che, quando si hanno ruoli pubblici, la responsabilità nei confronti della società aumenti, e io voglio informare il più possibile per invitare le persone a impegnarsi per cambiare le cose"» (Valentina D’Amico). «Ho tre orologi: uno segna l’ora del Darfur, uno l’ora dell’Africa centrale e uno quella di casa. Già dopo Rosemary’s Baby ho iniziato a interessarmi anche ad altre cose. Quel film mi ha cambiato la vita: venivo da una serie tv molto popolare, e con Rosemary sono arrivati rispetto professionale e denaro. Ma ho anche capito che le cose che la gente desidera – fama, fortuna e rispetto – non necessariamente portano la felicità. Sentivo il bisogno di trovare uno scopo nella mia vita» • Due matrimoni alle spalle: il primo, dal 1966 al 1968, con il cantante e attore Frank Sinatra (1915-1998); il secondo, dal 1970 al 1979, con il pianista, compositore e direttore d’orchestra André Previn (classe 1929). Tra le altre relazioni sentimentali, particolarmente importante quella con l’attore e regista Woody Allen (1935), iniziata intorno al 1980 e conclusa nel 1992, con pesantissimi strascichi polemici mai esauriti. Quattordici figli, di cui quattro biologici e dieci adottivi: da Previn ebbe tre figli, i gemelli Matthew e Sascha (nati nel 1970 e concepiti quando l’uomo era ancora sposato con la moglie precedente) e Fletcher (1974), e insieme a lui adottò tre bambine: nel 1973 la vietnamita Lark Song (1973-2008), nel 1976 la vietnamita Summer «Daisy» (1974) e nel 1978 la coreana Soon-Yi (1970); dopo il divorzio da Previn, la Farrow adottò altri due figli in veste di unico genitore: nel 1980 Moses (1978), affetto da paralisi cerebrale infantile, e nel 1985 Dylan (1985), all’epoca nata da appena due settimane; Moses e Dylan furono poi co-adottati nel 1991 da Allen, dal quale (almeno ufficialmente) la Farrow ebbe invece Satchel «Ronan» (1987); dopo la fine della relazione con Allen, l’attrice adottò altri cinque figli: due nel 1992, la vietnamita cieca Tam (1979-2000) e Isaiah (1992), due nel 1994, l’indiano paraplegico Thaddeus (1989-2016) e Kaeli-Shea «Quincy» (1993), e una nel 1995, la cieca Frankie-Minh (1989). Tre dei figli adottivi sono morti prematuramente: nel 2000 Tam, a 21 anni, per insufficienza cardiaca, secondo il fratellastro Moses in seguito a sovraddosaggio di antidepressivi; nel 2008 Lark, a 35 anni, secondo Moses in conseguenza dell’Aids contratta da tossicodipendente; nel 2016 Thaddeus, a 27 anni, probabilmente suicida. Nel 2013 la Farrow ha dichiarato che Ronan, anziché di Allen, potrebbe essere figlio di Sinatra, che l’attrice continuò a frequentare anche dopo il divorzio • Grande scandalo, nell’agosto 1992, quando la Farrow rivelò che Allen intratteneva una relazione con Soon-Yi Previn (all’epoca ventiduenne), figlia adottiva dell’attrice e del suo secondo marito, precisando che ne era venuta a conoscenza scoprendo accidentalmente tra le cose del regista alcune foto (recenti) in cui la ragazza era ritratta nuda. Pochi giorni dopo, con tempismo parso sospetto a molti commentatori, la Farrow accusò Allen di aver abusato sessualmente della loro figlia adottiva Dylan, all’epoca di appena sette anni: tali accuse, dichiarate non provabili in sede giudiziaria (nel 1993 il medico incaricato di investigare disse che la bambina o aveva inventato tutto o era stata plagiata dalla madre), furono poi periodicamente reiterate dalla Farrow e confermate dalla stessa Dylan, oltre che da Ronan (il quale all’epoca dei presunti abusi sulla sorellastra aveva quattro anni e mezzo). La questione acquisì particolare rilievo dopo la deflagrazione del caso Weinstein, uno dei cui principali artefici fu proprio Ronan, ormai affermato giornalista del New Yorker: sull’onda dello scandalo che stava scuotendo Hollywood, la Farrow e i figli Dylan e Ronan organizzarono una potente campagna di comunicazione rilanciando quelle accuse di abusi sessuali e di pedofilia per indurre il mondo dello spettacolo a ostracizzare Allen, raccogliendo numerose adesioni. A levare la propria voce in difesa di Allen, nel maggio 2018, fu invece Moses, il figlio co-adottato dalla Farrow e da Allen insieme a Dylan. «"Cara mamma, immagino che lancerai una campagna per screditarmi pubblicamente, ma è un peso che sono disposto a sopportare". Così, Moses Farrow, figlio adottivo di Mia Farrow e Woody Allen, ha concluso il suo ritratto di famiglia in un interno, la sua ricostruzione delle pressioni, i tormenti, le ripicche, le bugie, i plagi estenuanti cui sua madre ha sottoposto, per anni, lui e i suoi fratelli. Lo ha fatto per dire una cosa che ha già detto altre volte, mai spiegandola così bene, e mettendoci dentro tutto, anche il sangue: mio padre non ha violentato mia sorella Dylan. […] “A mia madre interessava che sembrassimo una famiglia felice ed esemplare: per questo adottò molti bambini, alcuni anche disabili”: premessa per breve memoir delle violenze, anche corporali e spesso pesanti, cui Mia li sottoponeva. La figlia Tam (vietnamita, cieca, depressa – per Mia “solo una ragazzina lunatica”), si è ammazzata a ventuno anni; il figlio Thaddeus si è sparato; la figlia Lark è morta di Aids. I lavaggi di cervello e le sevizie psicologiche pare facessero parte della manutenzione ordinaria di mamma Mia e crebbero fino alla psicosi dopo il fattaccio Woody-Soon: tutta la famiglia doveva, allora, aiutarla a incastrare il maiale. E veniamo allo stupro: è il 4 agosto del ’92, Mia lascia i bambini con Woody ed esce, raccomandandosi con ciascuno di loro di controllare il papà. In casa ci sono anche altri adulti e qualche tata. A un certo punto, stando al racconto di Dylan pubblicato dal New York Times nel 2014, Woody la porta in soffitta, le dice di sdraiarsi a pancia in giù e di giocare con un trenino elettrico; la violenta – secondo Moses, quella soffitta era impraticabile, piena di cacca di topo e uccelli, immondizia, robaccia, e nessun trenino. Mia Farrow rientra a casa con un suo amico, il quale, poche ore dopo, le rivela che la sua tata, rimasta in casa, ha visto Dylan guardare la tv con la testa posata in grembo a suo padre: tanto basta per convincere Mia che ci sia stata violenza. Tutto cambia per sempre. Pochi mesi dopo, una delle tate si licenzia perché Mia Farrow vuole obbligarla a testimoniare il falso. Durante tutto il processo, la madre dice ai figli che il padre ha fatto cose terribili e loro devono aiutarla a dimostrarlo se vogliono che la famiglia resti unita: “Feci la mia parte anch’io e dissi pubblicamente che mio padre mi aveva deluso: è il peggiore rimpianto che ho. Dissi poco dopo la verità agli psicologi, raccontai che mi sentivo bloccato tra i miei genitori, e Mia mi costrinse a ritrattare, accusandomi di aver rovinato il suo caso: ancora una volta, mi obbligò a mostrarle la mia lealtà”, scrive Moses» (Simonetta Sciandivasci) Pochi mesi dopo, nel settembre 2018, anche Soon-Yi Previn, divenuta nel 1997 la moglie di Allen, ha confermato i maltrattamenti della Farrow. «L’attrice le avrebbe spesso rivolto minacce (“dovrei mandarti in un manicomio”) e insulti (“sei cretina”), specie di fronte alla sua fatica nell’imparare una lingua nuova: “Mia mi faceva vergognare delle mie difficoltà; era solita scrivere le parole che non imparavo sul mio braccio, il che era umiliante, quindi indossavo sempre camicie a maniche lunghe. Mi aveva anche ribaltata, tenendomi per i piedi, per farmi drenare il sangue alla testa. Perché lei pensava – o aveva letto, Dio sa dove è venuta fuori l’idea – che il sangue alla testa renderebbe più intelligenti, o qualcosa del genere”. Una madre non tenera, che non mancava di schiaffeggiarla sul viso e sculacciarla con una spazzola, chiamandola “stupida” e “cretina”. Arrivando anche a perdere completamente il controllo, come quando ha lanciato un coniglio di porcellana, facendolo a pezzi vicino a lei» (Chiara Maffioletti) • «Ricognizione dell’albero genealogico di Mia, ove risultano: un padre alcolizzato, un fratello in prigione per molestie su minori e un altro morto suicida. Un quadro che gli intelligenti chiamerebbero famiglia disfunzionale, dicitura che Mia Farrow, però, ha sempre e solo accalappiato a quella che aveva creato con Woody» (Sciandivasci). «La furia dell’Inferno, ammoniva già Shakespeare, non è nulla rispetto a quella di una donna tradita» (Vittorio Sabadin) • «Al suo arrivo a New York, la Farrow incontrò l’allora quasi sessantenne Salvador Dalí, in un ascensore all’hotel St. Regis. Diventarono immediatamente grandi amici; insieme assistettero anche, senza prendervi parte, a un’orgia al Greenwich Village. In seguito, lei battezzò un suo cavallo Salvador. […] Del suo armadio si ricordano gli “strani vestiti” un po’ sformati, ma colorati e confortevoli, assurti ad “uniforme” di un’intera generazione; secondo il famoso parrucchiere George Masters non imparò mai a truccarsi, ma tuttavia creò il “Mia look”, che costrinse tante donne a tagliare i capelli cortissimi» (Ballaris) • «Andai in India con mia sorella Prudence, perché lei voleva meditare con un santone locale. Qui conoscemmo i Beatles. Erano rumorosi, ci stavano sempre attorno e non capivano che non eravamo lì per divertirci. Mentre cercavano di fare uscire dalla camera mia sorella, cantarono “Dear Prudence, won’t you come out to play?”. E da lì nacque Dear Prudence, una delle più famose hit del gruppo di Liverpool”». «Meditavamo 24 ore su 24, ma quando il mio guru doveva confidarmi la parola segreta del mantra io starnutii, e non la sentii: lui disse che non poteva ripeterla, e così non ho raggiunto l’estasi karmica» • «Ciò che mi dà veramente fastidio del mio lavoro è fingere. Mi piace vivere fino in fondo un personaggio. Rosemary non è un personaggio, ma sono io in quella situazione. Ho dovuto immaginare cosa avrei fatto al suo posto. Per il personaggio di Broadway Danny Rose ho preso come modello un’assistente famosa all’epoca. Ho capito subito come il personaggio si sarebbe dovuto muovere, vestire, pettinare, ma la voce era la parte più difficile. Sono andata a pranzo con lei e ho registrato la sua voce per apprendere l’accento, e ho imparato a parlare con un tono di voce più basso di quello che uso di solito» • «Il dramma è qualcosa che capita nelle vite di tutti, anche nella mia, ma credo di essere in cammino. Sto ancora imparando a vivere».