ItaliaOggi, 7 febbraio 2019
In mostra pittori che furono cancellati dalla peste
Di alcune delle grandi epidemie di peste che hanno spopolato l’Europa ci sono rimaste descrizioni letterarie di avvincente perfezione. A partire da quella di Atene, nel 430 a. C., riferita da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, che spopolò la città-stato e la condusse alla decadenza. Poi quella di Firenze, descrittaci da Boccaccio nel Decamerone, quando nella città toscana morirono 45 mila persone, cioè la metà dei cittadini. Infine quella che nel 1630 colpì tutta la Padania (1 milione e 100 mila vittime su 4 milioni) e soprattutto Milano, che perse 64 mila persone su 250 mila (quella che occupa gli alcuni degli ultimi capitoli dei Promessi sposi del Manzoni).Ed è appunto a quest’ultima che si riferisce una interessante mostra aperta al Museo di Castelvecchio di Verona, di cui la data della peste costituisce il terminus ad quem: «Bottega, scuola, accademia. La pittura a Verona dal 1570 al 1630» (sino al 5 maggio, ore 8.20-19.30, lunedì solo al pomeriggio). Non fu un’epoca facile. Le grandi linee del rinascimento erano piuttosto esaurite. Un po’ dovunque emergeva una pittura, che, per necessità, era ancora rispettosa delle grandi personalità del Cinquecento, ma anche alla ricerca di nuove vie, più realistiche e problematiche. È l’epoca del «manierismo».
Ma anche della Controriforma, con la Chiesa che si è impadronita della pittura per farne una pedagogia per le masse. Con una serie di istruzioni che ponevano ai pittori orientamenti e divieti. È l’epoca in cui la grande Ultima cena del Veronese porta il pittore davanti all’Inquisizione, in quanto piena di figure «sconce» di cui i vangeli non parlano: ubriachi, un ragazzino nero, tanti animali. Per salvarsi dovette cambiare il titolo: «Cena in casa di Lei».
Nella regione veneta, così ricca di pittori di prima grandezza, Verona non si distingueva particolarmente. Ne ha avuti tanti, ma all’altezza dei grandi maestri veneti uno solo, Paolo Caliari, detto il Veronese, il quale tuttavia giovanissimo si trasferì e Venezia, dove divenne, insieme con Tiziano e Tintoretto, uno dei geni della Serenissima.
Ciò non significa che a Verona mancassero i pittori. Anzi. Le 61 opere esposte (dipinti, disegni, strumenti) sono tutte uscite dalle botteghe e scuole veronesi. Fra le quali emerge per importanza e risultati la dinastia dei Brusasorci. Fondata da Domenico Riccio (1516-1567), che viene considerato un precursore del Veronese. Le opere sue e della sua bottega erano molto richieste da committenti religiosi e laici. Riempì Verona di pale d’altare per le chiese e di opere profane, per lo più mitologiche, per i palazzi.
Domenico avviò alla pittura i suoi tre figli, dei quali emerse Felice (1539-1605, forse avvelenato dalla moglie infedele). Anch’egli richiestissimo per le pale d’altare, ma divenuto presto un abile ritrattista. Di certo più grande del padre, come è chiaro da molte opere esposte: Madonna e Santi; Il valore incoronato dalla fama; Ritratto di Bartolomeo Carteri. Fu da Felice che tanti allievi impararono a dipingere. Fra i quali Alessandro Turchi (Madonna con Santi), Marcantonio Bassetti (Madonna e santi); Bernardino India (Santa Giustina).
Una mostra, dunque, che fa conoscere un capitolo poco noto della pittura veneta, non eccelso, ma sempre sollecitante e gradevole. Come scrive la Direttrice dei Musei civici veronesi e curatrice della mostra, Francesca Rossi: «Nella rilettura di un’Italia multicentrica, alle prese con l’ascesa e l’affermazione del caravaggismo, del naturalismo e della predica degli affetti divulgata sotto il vessillo della controriforma cattolica dalla pittura rubensiana, il contesto veronese rivela l’idea di una tradizione artistica locale che riuscì a mantenere salda la propria identità e autonomia e tramandarla senza cedere alle tendenze figurative dominanti in quel momento l’intera Europa».
Un insieme di scuole e botteghe spazzate via tutte insieme quando, nel 1630, giunse la peste. Verona contava allora 54 mila abitanti. Ne morirono 33 mila, cioè il 61 %. Fu la città più colpita della Padania. Molti pittori morirono, la povertà si diffuse e i cittadini committenti diminuirono.