Avvenire, 7 febbraio 2019
Stati vegetativi, cosa sappiamo oggi
A dieci anni dalla vicenda drammatica di Eluana Englaro, la ricerca sugli stati vegetativi e di minima coscienza ha fatto senz’altro passi avanti: sono aumentate le conoscenze scientifiche, sono migliorate le diagnosi, sono cresciute le possibilità di miglioramento. Le nuove linee di ricerca, che puntano di più sul coinvolgimento dei familiari nel percorso di cura, hanno però bisogno di essere sostenute per non rischiare di doversi fermare. «Oggi c’è una maggiore consapevole delle diverse caratteristiche dei pazienti, e questo si è ottenuto perché si sono standardizzati i livelli di valutazione – premette Matilde Leonardi, direttore del Centro ricerche sul coma dell’Istituto neurologico Besta di Milano –. La possibilità di miglioramento diagnostico multidisciplinare, inoltre, ha fatto sì che ci siano sempre meno ’stati vegetativi’: abbiamo imparato che quel 40% di diagnosi sbagliate era legato a un’imprecisione diagnostica, dovuta a mancanza di strumenti. Nell’ambito del nostro progetto, noi abbiamo cambiato diagnosi al 36% dei pazienti. Nello stesso tempo – sottolinea Leonardi –, insieme ad altri centri a livello internazionale stiamo lavorando anche sui trattamenti terapeutici. È un approccio che 10 anni fa sembrava impossibile. Abbiamo anche svolto indagini epidemiologiche importanti. La ricerca deve però proseguire, non si possono aspettare casi tragici».
Per quanto riguarda gli stati vegetativi e di minima coscienza, «la ricerca sta sicuramente cercando di ottenere chiarimenti rispetto alle scarse conoscenze finora disponibili – rimarca Rita Formisano, direttore dell’Unità neuroriabilitazione e post-coma della Fondazione Santa Lucia di Roma –. Gli sforzi maggiori riguardano la possibilità di utilizzare un linguaggio comune a livello internazionale. Stiamo cercando di validare linee guida globali che possano dettare i livelli minimi assistenziali insieme ai protocolli diagnostici e terapeutici di questi pazienti». Un nuovo progetto riguarda poi la possibilità di disporre di uno strumento di valutazione del dolore nei pazienti con disordine di coscienza. «Nella mia esperien- za clinica di oltre 35 anni in questo campo – aggiunge Formisano – posso dire che riconosciamo quando un paziente in stato vegetativo ha probabilmente un’infezione alla vescica dalla mimica facciale. Noi stiamo proponendo una scala revisionata che non prenda in considerazione lo stimolo dolorifico standard ma uno stimolo personalizzato». Altro studio riguarda poi il coinvolgimento dei familiari. «Se provi a verificare la responsività di un paziente senza uno stimolo significativo della presenza o della voce di un suo caro – spiega – puoi ottenere punteggi molto diversi». Nel frattempo, si ricorre con sempre maggiore precisione alla «risonanza magnetica funzionale, oltre che ai potenziali evento-correlati, che sono elettroencefalogrammi con stimoli emozionalmente significativi, dove si va a vedere se ci sono aree di attivazione cerebrale anche in quei pazienti che clinicamente sembrerebbero stati vegetativi con apparente non contatto con l’ambiente esterno».
«Ormai si è assodato a livello scientifico internazionale che la diagnosi clinica degli stati vegetativi ha margini di errore molto alti – dice Roberto Piperno, direttore del Centro riabilitativo Casa dei risvegli Luca de Nigris di Bologna –. Noi stessi abbiamo concluso qualche anno fa uno studio italiano che dimostrava che poco più di un quarto dei soggetti in stato vegetativo in realtà non lo erano. Se è presente comunque una coscienza, per quanto minima, esiste la possibilità che questa possa evolvere nel corso del tempo. Almeno un terzo dei casi possono cambiare nei cinque anni successivi». Gli studi hanno poi illuminato il funzionamento della coscienza. «È cambiata l’idea che avevamo: non la pensiamo più come una luce che si accende e si spegne – spiega Piperno –, ma è una situazione di cui cominciamo oggi a capire le basi neurologiche. Nel corso degli ultimi 5-6 anni la ricerca si è molto orientata in questa direzione, cercando di interpretare i meccanismi alla base della consapevolezza di una coscienza di sé e dell’ambiente. Si è visto ad esempio che si tratta di connessioni all’interno di tutte le zone del cervello». Si fanno strada approcci personalizzati. «Alcuni di questi interventi – spiega ancora Piperno – riguardano i familiari, che non sono solo la parte che soffre perché accompagna la persona ma rappresentano anche la parte che può giocare una relazione in termini di contatto, di amore, di storie personali, attraverso elementi verbali ma anche di semplice presenza: pensiamo agli odori familiari, che rappresentano una memoria che ognuno di noi ha. Questi elementi provocano stimoli, quindi determinano risposte di qualità più alta».
I percorsi di riabilitazione e cura necessitano però di reti specializzate presenti in modo omogeneo sul territorio. Spesso però rappresentano l’anello debole della ’filiera assistenziale’ perché prive delle risorse concrete necessarie. A farne le spese sono i pazienti e le famiglie. Come sa beneGiovanni Battista Guizzetti, responsabile del reparto Stati vegetativi del Centro don Orione di Bergamo. «Per le terapie ancora non sono stati fatti veri passi avanti. L’aspetto più importante, secondo la mia esperienza – spiega –, è che una presa in carico puntuale e seria può favorire nel tempo il recupero della capacità di relazione con le persone». Ma questo avviene solo «se la persona è posta al centro di un progetto di cura globale. L’assistenza fatta di relazioni affettive con i parenti può davvero fare la differenza ».