7 febbraio 2019
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Biografia di Juliette Gréco
Juliette Gréco, nata a Montpellier (Francia) il 7 febbraio 1927 (92 anni). Cantante. Attrice. «Mi chiamo Juliette Gréco, e non ho mai avuto uno pseudonimo. Sono nata il 7 febbraio 1927 a Montpellier, la capitale della Linguadoca, in Provenza. Mia madre mi ha detto che quel giorno pioveva, e la pioggia favorisce la crescita di tutte le piante, anche quelle più velenose» • «La sua prima vita è cominciata nel 1927, a Montpellier. Il papà, còrso, era commissario di polizia: “Non ricordo quasi niente di lui. Una volta mi ha quasi lasciata annegare. Avevo 4 o 5 anni. Eravamo su una spiaggia, lui stava tirando di scherma. Io non sapevo nuotare, sono entrata in acqua, la gente urlava. Lui non ha fatto nemmeno un passo per entrare. Era vestito molto elegante, e non ha voluto bagnarsi le scarpe”. La seconda vita comincia a Parigi, dove la mamma si trasferisce con la sorella Charlotte: “A scuola avevo la mia uniforme e il mio cappellino, ma ci andavo senza interesse, come se non andassi da nessuna parte. Non conoscevo nessuno, nessuno mi riconosceva. Ero asociale. Il momento peggiore per me era la ricreazione. Avevo orrore dei loro giochi. Gridavano tutti. Era un momento violento, chiassoso, sgradevole”. La terza vita è la sua prima esperienza sessuale, in un pensionato religioso, dove era finita cacciata dalla scuola perché accusata di furto. Tra le suore pensava di aver la vocazione e voleva prendere i voti per diventare la sposa vergine di Cristo: “Ne ero convinta fino a quando non sono stata violentata da una sorvegliante in dormitorio. Fino ad allora pensavo la carne e l’intelligenza come due entità incompatibili. La carnalità mi sembrava una cosa empia”. Non più, dopo. Bisogna arrivare alla guerra, Juliette diciottenne nella Parigi occupata, mamma e sorella deportate prima a Ravensbrück, poi a Holleischen e lei stessa arrestata, trattenuta e interrogata dalla Gestapo, per arrivare a una quarta vita che poi è l’inizio di tutte le altre. Nel maggio del 1945 Juliette, come migliaia di parigini, va ogni giorno all’hotel Lutetia, centro d’accoglienza per i deportati liberati dagli alleati. Un giorno, qualcuno le posa una mano sulla spalla. Mamma e sorella ricompaiono dal nulla. Juliette si avvicina, ma la mamma, senza quasi guardarla, le chiede: dov’è Antoinette? “Voleva solo la persona che amava, non pensava che a lei. Neppure una parola per me, piccola idiota. Jujube (Juliette, ndr) comincia a morire, quasi si ferisce conficcandosi per la rabbia le unghie nel palmo della mano destra. Ciò che poteva rinascere in quello stesso istante è stato ucciso per la seconda volta. Sepolto”. È la morte della bambina, è la fine del rapporto: “Non ha mai capito cosa voleva dire essere una mamma”. E poi: “Quando ho cominciato a cantare, diceva: a causa di voi due figlie non ho fatto la carriera che avrei potuto fare. E poi io cantavo molto meglio di te…”» (Cesare Martinetti). «Finita la guerra, Juliette, diciannovenne, prende casa nel quartiere parigino di Saint-Germain-des-Prés. È qui che, grazie anche all’interessamento della sua insegnante di francese, comincia la sua parabola artistica ed esistenziale. La Parigi del dopoguerra pullula di fermenti, di stimoli, di suggestioni. […] In sintonia con lo stile di vita bohémienne, comincia a vestirsi di nero, il colore della protezione e dell’invisibilità, una divisa che l’accompagnerà lungo tutto il corso della sua vita. Attratta dal teatro, e dall’arte in tutte le sue declinazioni, Juliette intraprende la gavetta di rito collezionando incontri ed esperienze. Arrivano le prime particine a teatro e un lavoro in un programma radiofonico incentrato sulla poesia. La rive gauche, il Quartiere Latino e Saint-Germain-des-Prés sono i luoghi più frequentati da artisti e intellettuali dell’epoca, ed è qui che la giovane Juliette stringe le prime amicizie importanti e le prime relazioni sentimentali. Siamo nella stagione cupa e affascinante dell’esistenzialismo» (Mario Caruso). «La guerra mi traumatizzò; quando arrivai a Saint-Germain non riuscivo neppure a parlare. Boris Vian mi aiutò a rinascere. La sera, all’imbrunire, nella sua casa di Montmartre, mi curava con la letteratura e con il jazz» (ad Antonio Lodetti). «Per un anno sono stata ballerinetta all’Opéra (ho sempre amato la danza classica), e ho anche recitato in una commedia di Roger Vitrac» (a Maurice Colasanti). Risale a quell’epoca uno dei suoi primi incontri importanti: «quello, lontanissimo, con François Mauriac, al ristorante La Méditerranée di place de l’Odéon: “Ero molto giovane, povera, con i piedi nudi, un maglione nero, un paio di pantaloni neri, fui invitata lì da Christian Bérard e Boris Kochno, il quale mi aveva visto danzare all’Opéra e voleva creare un balletto per me, mi voleva convincere a tornare alla danza. Io sapevo che non sarei tornata, ma accettai l’appuntamento soprattutto perché a quei tempi avevo fame e non sempre riuscivo a mangiare; quando entrai, la gente si voltò per vedere quella poveraccia in un locale così elegante. A un certo punto vidi un distinto signore, alto e di una certa età, che si alzò da un tavolo, allargò le braccia e cominciò a urlare: ‘Bonjour, Gréco…’. Venne ad abbracciarmi, e la gente rimase stupita: Mauriac che salutava una piccola miserabile come me… Al suo tavolo c’era l’attrice Edwige Feuillère, una donna che avrei stimato e amato per tutta la vita”» (Paolo Di Stefano). «“È stato davvero un momento magico. Sembrava che ogni barriera fosse caduta, tutti parlavano con tutti. […] Resta però un enigma perché proprio Saint-Germain-des-Prés sia diventato un luogo mitico. Sì, c’erano un paio di locali notturni e due caffè, il Deux Magots e il Flore…”. Lei ha scritto che quei locali sono stati la sua università. “Ho lasciato la scuola a quattordici anni: ero timida e molto particolare. Se leggevo Sartre, la Beauvoir o Merleau-Ponty non capivo nulla. Ma appena mi sono seduta a tavola con loro ho capito tutto. Mi sono letteralmente nutrita delle parole dei miei mentori”» (Thomas Gross). «Gli uomini che ho conosciuto erano intellettuali, geniali, pazzi e sensibili al tempo stesso, a cominciare da Maurice Merleau-Ponty. Lo incontrai mentre raccontavo poesie nei caffè, e fu lui a presentarmi a Sartre, un uomo con un fantastico senso dello humor; qualcuno pensa che l’esistenzialismo sia stato un movimento triste e cupo; invece quanto divertimento, ma mai fine a se stesso». «Una sera del 1947 Juliette Gréco è al Tabou, club della rue Dauphine. Lascia il cappotto sul mancorrente di una scala che porta nella cantina del locale. Il cappotto scivola in basso, e lei si ritrova a cercarlo in uno stanzone buio pieno di casse di vino. Era nata la celeberrima cave del Tabou, che per anni sarà suo regno e suo rifugio. Si incontravano lì gli esistenzialisti del "villaggio Saint-Germain". Al pianoforte c’era Boris Vian, alla batteria suo fratello Alain e alla chitarra l’altro fratello Lélio» (Laura Putti). «Il passo dalla recitazione al canto stava […] per compiersi. Nel 1948 recita una parte nel film Aller et retour di Alexandre Astruc. L’anno dopo è la volta di Au royaume des cieux di Julien Duvivier. Parallelamente a queste prime esperienze cinematografiche, Juliette comincia a esibirsi come cantante nei numerosissimi locali di Saint-Germain-des-Prés» (Caruso). «Avevo cominciato come attrice di teatro. È stato Jean-Paul Sartre a farmi cantare. Non mi ha consigliato: me l’ha ordinato». «Una volta, dopo aver cenato assieme al Cloche d’Or a Montmartre – stavamo rientrando a piedi perché non avevamo più i soldi per il taxi –, si voltò e mi chiese: “Ha intenzione di fare la cantante?”. Io risposi: “No, signore, non ci penso affatto”. E lui: “Venga da me domani alle nove. Ho qualcosa per lei”. Così andai da lui alle nove, che per me era l’alba, e mi disse: “Ho dei testi per lei”. A due di quei testi sono rimasta legata: Si tu t’imagines di Raymond Queneau e L’éternel féminin di Jules Laforgue» (Gross). «Di anni ne ha ventidue, è il ’49, quando debutta al Beuf sur le Toit, ristorante e luogo di incontro della Parigi intellettuale. La lista delle canzoni, gliel’ha stilata Sartre. […] Anche Sartre le dà una canzone, La rue des Blancs-Manteaux, accompagnata da una frase che sdoganerà quella ragazzina scura e magrissima, inquilina degli alberghi della rive gauche, alla quale bisogna trovare un mestiere: “Gréco ha milioni nella voce, milioni di poesie non ancora scritte, gliene scriveremo qualcuna. Facciamo pièce di teatro per certi attori: perché non dovremmo fare poesie per una voce?”. Il campo è libero. Di ragazze come Juliette è piena Parigi; di Gréco ce ne sarà una sola» (Putti). «La svolta vera e propria si verifica tra il ’49 e il ’50. Jean Cocteau la vuole nel suo Orphée (1950) mentre Raymond Queneau e Joseph Kosma scrivono per lei la canzone Si tu t’imagines (prima incisione discografica della Gréco, sempre del 1950). Da questo momento la carriera musicale di Juliette sarà in continua ascesa. La sua voce – genuina, profonda, colta, sofferta, velata d’una tristezza elegante e misteriosa – ispira la creatività dei più grandi autori del tempo, da Robert Desnos (La Fourmi, 1950) a Jacques Prévert (Je suis comme je suis, 1951), da Charles Aznavour (Je hais les dimanches, 1951) a Charles Trenet (Coin de rue, 1954). E poi ancora Georges Brassens (Chanson pour l’Auvergnat, 1955), Léo Ferré (Jolie Môme, 1961), Serge Gainsbourg (Accordéon, 1962), per non citarne che alcuni. Il talento di Juliette non è solo vocale. Memore dei trascorsi teatrali, la sua interpretazione seduce e convince per la sua pregnanza. Juliette non esegue con mero virtuosismo, ma vive, indossa, fa propri i suoi brani fino ad aderirvi. La sobria mise in nero concentra tutta l’attenzione sul pallore lunare del suo viso. Con gli anni la sua voce acquisirà sempre più struttura e teatralità. Nel primo decennio di attività Juliette continua a dividersi tra la musica e il cinema. Incisive le sue interpretazioni in Eliana e gli uomini (1956) di Jean Renoir, Terra nuda (1958) di Vincent Sherman, Le radici del cielo (1958) di John Huston e Dramma allo specchio (1960) di Richard Fleischer. Celebre la sua interpretazione nello sceneggiato televisivo Belfagor ovvero il fantasma del Louvre (1965), per la regia di Claude Barma. Dagli esordi fino ad oggi la Gréco non si è mai fermata. Negli anni il suo repertorio discografico si è via via arricchito, consolidandola quale punto di riferimento imprescindibile della storia della chanson française. Tra i tanti suoi successi basti menzionare Les feuilles mortes, Sous le ciel de Paris, Paris canaille, La Javanaise, Un petit poisson e le sue struggenti interpretazioni dei brani di Jacques Brel La chanson des vieux amants e Ne me quitte pas. Brani che hanno scritto la storia del Novecento» (Caruso). Dopo oltre sessant’anni di carriera, Juliette Gréco ha pubblicato l’ultimo disco, Merci, nel 2015, avviando quindi l’omonima tournée internazionale d’addio, originariamente organizzata in cinquanta concerti. «Ho un corpo e un cervello, e a un certo punto il corpo mi impone di dire basta. Prima di essere obbligata dal mio fisico, voglio che sia il mio spirito a decidere, come ho sempre fatto: lascio il palco ed è una libera scelta, l’ennesima. Ammetto che sia per me crudele e terribile lasciare il mio pubblico, ma è così: non voglio, ma devo farlo» (a Eva Morletto). «Per orgoglio. Per cortesia. Per pudore. Per una forma di eleganza. Per non aspettare di essere compatita. Non ho voglia di vedere sguardi di pietà dalla platea. […] Voglio uscire di scena in piedi, non seduta». Purtroppo la tournée d’addio è stata sospesa sine die il 24 marzo 2016, dopo che la Gréco è stata colpita da un ictus • Nel corso degli anni ha pubblicato tre testi autobiografici: da ultimo, Io sono fatta così (Dalai 2015). «A un certo punto, mi sono detta: posso morire da un momento all’altro, bisogna che dica la mia verità, che non è la verità degli altri, ma solo la mia» • Tre matrimoni: il primo con l’attore Philippe Lemaire (1927-2004), da cui ha avuto la figlia Laurence-Marie; il secondo con l’attore Michel Piccoli (classe 1925); il terzo con il pianista Gérard Jouannest (1933-2018), con cui è stata sposata per trent’anni, dal 1988 fino alla morte di lui. Da ragazza fu sul punto di sposarsi con il trombettista e compositore Miles Davis (1926-1991), conosciuto e amato a Parigi. «Alla fine, per amore, abbiamo rinunciato. Io ero bianca e lui nero. Negli Stati Uniti, dove la segregazione era ancora estremamente violenta, ci avrebbero perseguitati: era una unione impossibile. Saremmo stati infelici entrambi. E poi, perché sposarsi? Io che lo sono stata tre volte mi pongo la domanda» (a Stefano Montefiori). «Mi innamorai di Davis perché era affascinante e di una sensibilità unica. Aveva un suono tragico e soave al tempo stesso. Se mi chiedono cos’è la musica classica, rispondo: Miles»». La Gréco ha inoltre dichiarato di aver intrattenuto anche alcune relazioni omosessuali. «Perché non dovremmo sentire lo stesso amore cerebrale e carnale con una donna come lo sentiamo per un uomo?» • «Odiava il suo naso. La chirurgia estetica era di moda. […] Il modello preferito da Juliette era quello piccolo e diritto di Simone de Beauvoir. La prima volta fu nel ’53, la seconda nel ’56, poi nel ’60. L’ultima operazione è del ’90» (Martinetti) • «Io sono maniaca delle scarpe: è come una forma di follia. Forse una specie di rivalsa, perché c’è stato un periodo in cui non me le potevo permettere» (a Mariella Tanzarella) • «Il volto pallido, i vestiti sempre neri, le ciglia finte… È la sua maschera? “È un’armatura. La vestizione in camerino per me è un rituale”. A cosa serve? “A essere meno fragile. E a sembrare più bella”. Come nacque lo stile Gréco? “Fondamentalmente, feci di necessità virtù. Nella piccola pensione dove avevo preso una stanza c’erano molti studenti. Io non avevo nulla, così mi passavano i vestiti. All’inizio portavo i pantaloni del mio vicino di camera, arrotolati, perché erano troppo lunghi. Appena misi insieme un po’ di soldi, ne comprai un paio neri e vi accostai un pullover nero. Feci furore. Nel 1950 all’improvviso tutta la Costa Azzurra vestiva di nero”. Una donna vestita da uomo… “Già negli anni Trenta Marlene Dietrich portava i pantaloni, ma nessuno se ne ricordava. E poi i suoi erano pantaloni elegantissimi, firmati Chanel! Io invece mi vestivo da ragazzo, e quello stile resiste ancora”. E poi venne il tubino nero. “Lo devo a Nicolas Papadakis, all’epoca proprietario del Rose Rouge. Mi disse: ‘Senti, non puoi più cantare vestita così. Da Balmain c’è una svendita: andiamo assieme’. Fui colpita da un abito nero semplicissimo che aveva un enorme strascico dorato, e lui me lo comprò. A casa però decisi di eliminare lo strascico: lo tagliai via con le forbicine da unghie’”. Qual era il messaggio dello stile Gréco? “Io sono come sono, voilà!”» (Gross) • «Per me una canzone è un’opera teatrale, uno spettacolo della durata di due minuti e mezzo che abbia come minimo tre atti». «La canzone è una finestra aperta nel buio». «“Per me il canto è un po’ come il teatro: do vita a qualcosa che altri hanno scritto. Lo trasmetto attraverso il mio corpo”. Ha mai pensato a comporre? “No, ho sempre avuto ottimi autori: preferisco mettermi al loro servizio. Per me i testi sono creature che vogliono essere comprese. Io ascolto le parole cercandovi messaggi nascosti. Se li trovo, adotto il testo, quasi fosse un bambino”. Per cantare bisogna far proprio il testo? “Si può addirittura mutare il senso di una canzone, come ho fatto io con Ne me quitte pas. Mi irritava il tono lamentoso di Brel, quel "ti prego, ti prego non mi lasciare". Io ho trasformato la canzone in una prova di forza: se mi lasci vedrai che ti succede, stai attento!”» (Gross) • «Uno dei ricordi più struggenti è stato un concerto in Germania, nell’immediato dopoguerra: ero stata invitata dalla Filarmonica di Berlino su richiesta di Von Karajan. Ero commossa fino alle lacrime. Cantavo davanti ai tedeschi mentre sfilavano davanti ai miei occhi le immagini di mia madre e di mia sorella deportate dai nazisti. Aveva qualcosa di terribile essere lì». «Negli anni Settanta, in controtendenza, va in Cile e canta davanti a una platea gremita di militari canzoni antimilitariste. La fischiano per tutto il tempo, e lei canta per tutto il tempo. La fischiano dietro il palco, e lei se ne infischia. Lo ricorda con orgoglio» (Nadia Agustoni). «Io ho accettato di esibirmi in Cile sotto il regime di Pinochet, in Spagna sotto quello di Franco. È stato durissimo. Ma oggi so di aver fatto il mio dovere». «Parigi è la mia rosa, è giovane e vecchia, cammina appoggiandosi a un bel bastone di bambù con il pomo d’argento, rivede il suo passato e aspetta qualcosa, forse un’altra rivoluzione che coinvolga i giovani e ridia loro la forza di creare. Parigi vive da molti secoli, ha dormito abbastanza e sente di essere arrivata alla fine di qualcosa. Per questo aspetta. Qualcosa arriverà, qualcosa cambierà: bisogna essere pronti» • «Proprio come Gainsbourg e Gainsbarre, il timido e lo sfrontato, anche lei è doppia, lo è sempre stata. […] Scrive: “Voglio che Gréco sia fiera della piccola Juliette”. “Ho sempre avuto un complesso di inferiorità. Mi sono sempre sentita meno intelligente degli altri”, dice avvicinando le labbra a una coppa di champagne. Lei, il simbolo della donna libera, la portabandiera del coraggio femminile? “Il coraggio è restare in piedi quando non si è sicuri di farcela. Non il contrario. Quando arrivo in scena divento qualcosa che non sono. Posso sentirmi addosso sedici anni e un secolo. È sempre stato così”» (Putti). «La disturba l’etichetta di musa degli esistenzialisti? “Un tempo sì. Ora li lascio dire. È vero che ho incontrato personaggi straordinari. […] Quando i giovani vengono a trovarmi in camerino capisco che vorrebbero tanto aver vissuto allora: oggi per loro è un sogno”» (Gross). «La definizione che più le piace è: Jujube, una donna in piedi. “Sì, bisogna restare sempre in piedi, combattere tutto quello che si detesta. Cantare in piedi contro i pericoli: la menzogna, il razzismo, l’immobilismo…”. Al Tabou di rue Dauphine, con Vian e Cocteau, si cantava in piedi. C’era anche Miles Davis, che suonava in piedi. “Era un locale per bambini felici e, se c’erano vecchi, erano dei vecchi bambini felici”. […] Prima venne la danza, poi il teatro, infine il canto. Che differenza? “Nessuna differenza: sono tre attività che impegnano allo stesso modo la totalità del comunicare, il corpo, lo spirito, la voce”» (Di Stefano) • «Rosa delle tenebre» (Jean Cocteau). «Un bel pesce magro e nero» (François Mauriac). «Abbronzata di luna» (Pablo Picasso) • «Si rendeva conto, durante gli anni di Saint-Germain, di vivere qualcosa di importante? “No. Era la mia vita, e per me era una vita normale. Io stavo con persone che amavo, che rispettavo, alle quali ero grata. Ieri, oggi, domani: mai avuto la nozione del tempo, e mai avrei pensato di arrivare a essere così vecchia. Il tempo non esiste e non trasforma. Resti quello che sei. Io a tre anni ero come oggi. Infernale. Il dolore, l’umiliazione, la miseria, la solitudine non ti formano: semmai, ti deformano. Non sono le avversità che ti strutturano, ma il fatto che sei riuscita a vincerla, quella guerra, che non sei diventata una puttana qualunque. Sei sempre tu che scegli, e questo ti obbliga alla dignità”» (Putti). «Il passato è passato, l’unico momento in cui mi tornano in mente quegli anni dei quali tutti sono ancora così curiosi è quando penso ai miei amici come se fossero ancora vivi. Alle volte penso "Questa cosa devo dirla a Boris Vian", ma Boris è morto. Odio la morte: mi ha tolto tutti gli amici». «Non ho rimpianti. Nella vita bisogna saper dire di no. Non mi interessano il denaro e la gloria: quello che mi hanno offerto dopo non era convincente o non mi piaceva. L’importante è rimanere fedele a me stessa e ai miei ideali». «È gentile che la vita mi abbia portato fin qui. Le persone anziane hanno più paura della morte di quanta ne hanno i giovani, ma io sono rimasta all’immaturità, non la temo. Mi aiutano le canzoni: hanno il profumo di un istante, eppure ce ne sono alcune che ti accompagnano per tutta la vita, entrano a far parte della memoria collettiva. E hanno l’effetto di una madeleine di Proust. Ma io vivo sempre con sorpresa il presente. Ho solo un po’ di nostalgia quando ripenso a un’epoca in cui si poteva pagare il conto del ristorante con una poesia».