Libero, 7 febbraio 2019
Trump è arancione
Si può, dunque, parlare impunemente di colore della pelle? Uno pensava che l’argomento fosse diventato tabu’, nell’America ossessionata dalla correttezza politica dei termini da usare per descrivere etnie e razze basandosi sul riscontro cutaneo. E invece il New York Times ha sdoganato lo sfruculio epidermico. Certo, per farlo, ha individuato un soggetto, Trump, su cui si può dire e scrivere di tutto, senza rischiare non dico l’accusa di essere razzisti, ma neppure quella del pessimo gusto. «Nel pallido inverno, l’abbronzatura di Donald Trump rimane un segreto di Stato», titola il giornale leader della Resistenza al presidente. E in un articolo di oltre 1.100 parole, pari a 6.559 battute spazi inclusi (lungo circa il doppio di quello che state leggendo) si contorce nell’esiguo spazio tra il gossip faceto e la seriosa condanna della sua carnagione. Di un caucasico di etnia bianca, importante e Repubblicano, si può infatti dire di tutto sul suo aspetto, dall’ironia al dileggio pieno.
BUONI GENI
Il segreto misterioso su come Trump riesca ad avere quella tinta non è comunque stato risolto dai segugi del Nyt. Non c’è traccia di lettini per la lampada al quarzo nella Casa Bianca o sull’Air One, e neppure sono mai state viste creme abbronzanti nelle camere da letto o nei gabinetti, secondo testimonianze anonime di chi ha messo piede in quei locali. Dall’amministrazione, la spiegazione data è che «Donald ha dei buoni geni», insomma un Dna che gli procura quel colorito che si porta dietro, peraltro, da decenni. «Un rossore vistosamente baciato dal sole, un qualcosa che splende come un semaforo rosso sullo sfondo grigiastro di Washington», scrive l’articolista Katie Rogers. Che poi prende a prestito la descrizione usata dall’attore Alec Baldwin, quello che fa la satira settimanale del presidente nel programma Tv Saturday Night Live (in diretta il sabato sera): «Trump oscilla tra l’“arancione di Mark Rothko” (il celebre pittore russo-americano della corrente dell’astratto espressionismo, ndr) e la tinta più leggera dell’Orange Crush» (bibita in voga oggi al succo d’arancia con Vodka e limone, ndr). Ahahaha, che ridere. Immaginate il can can se uno descrivesse, su un giornale mainstream, il colorito di Michelle a metà tra il marrone del cappuccino al latte di Starbucks e il bruno di una caldarrosta.
LA GAFFE DI BIDEN
Lo sa bene persino Joe Biden. Nel febbraio del 2007, all’avvio delle primarie Democratiche in cui cercava la nomination, fu crocefisso per molto meno. Così Joe aveva descritto il suo avversario Barack: «Vedete, voi avete il primo mainstream African-American che è eloquente e si esprime in modo articolato. Ed è brillante, è pulito ed è un tipo di bell’apparenza. Suvvia, questa è una favola». Biden, che sarebbe poi diventato il vice di Obama, dovette rinnegare il suo commento («pulito», era la parola incriminata politicamente) con un comunicato formale: «Mi pento profondamente di ogni offesa che la mia frase riportata sul New York Observer può aver causato a chiunque. Non era il mio intento e l’ho espresso al senatore Obama». Chi sfiora un nero, anche con un’osservazione innocente, sente la scossa. Ed anche chi tocca uno con la pelle rossa, se e’ un indiano e non Trump, non se la passa liscia. Anzitutto, vanno chiamati Native American e non Indiani, come usa senza eccezioni il New York Times. Ma il paradosso è che se andate a Washington, e visitate il National Museum of the American Indian, parte della Smithsonian Institution, scoprite che si chiama proprio così, «degli Indiani Americani». La “polizia” della correttezza politica si deve essere distratta e non ha ancora provveduto a cambiare il nome del Museo. In compenso, è da tempo che si accanisce contro i «Redskins», i «Pellerossa» come orgogliosamente si chiama, dal 1932, la squadra di football americano Washington Redskins. Chi ha poco da ridere sulle sue origini «indiane» è la senatrice Elizabeth Warren. Aveva appena chiesto scusa alle vere tribù del Nordamerica per aver fatto un test che doveva provare il suo sangue “indiano”, una pratica bocciata dai veri pellerossa, e oggi è uscito un documento, con la sua firma, in cui si autodefiniva Native-American per passare un esame da avvocato in Texas 30 anni fa. È più “pellerossa” Trump di lei, che continuerà a essere sbeffeggiata come Pocahontas, per di più tarocca.