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 2019  febbraio 07 Giovedì calendario

Intervista a Javier Marías

In questa epoca «esibizionista», dominata dal «rancore», la situazione è «piuttosto tranquilla» almeno a Redonda, la piccola isola disabitata dei Caraibi divenuta un Regno di finzione (che ha comunque i suoi duchi e i suoi ambasciatori) del quale Javier Marías ha ereditato lo scettro. «Devo però iniziare a pensare a un successore», dice in questa intervista al «Corriere della Sera» alla vigilia del suo viaggio a Milano per il premio che ha vinto con Berta Isla (Einaudi) nella classifica-referendum organizzata da «la Lettura». Se Xavier I decidesse di abdicare, il mondo dovrà fare a meno dell’unico monarca di un Regno «liberale, nel senso migliore della parola, dove tutto è permesso, anche la cospirazione». Rimangono i suoi libri, per fortuna. Perché il re di Redonda è anche uno scrittore molto amato, tradotto in decine di lingue, che ha esordito con I territori del lupo a diciannove anni e da allora non si è mai fermato. È infatti al lavoro, nella sua casa madrilena, seduto davanti ad una macchina da scrivere elettrica.
Violando il riserbo che circonda abitualmente i suoi progetti, Marías ci rivela che sta pensando di dare un seguito al suo ultimo romanzo perché ha «curiosità di sapere» che cosa accade a chi (come Tomás Nevinson, il marito di Berta) «crede che la sua vita sia terminata». Quando gli chiediamo infatti se gli sia mai venuto il desiderio di aggiungere qualcosa ad una storia, o addirittura proseguirla, piuttosto che fare riapparire altrove i personaggi, ci risponde: «Sì, mi sta succedendo ora. Nei romanzi il finale è il finale, è quello che l’autore decide. Nella vita non c’è altro finale che la morte. Nel finale di Berta Isla Tomás Nevinson sembra un uomo sconfitto, abbandonato ai suoi orribili ricordi, e quasi sonnambulo. Ma ha solo una quarantina di anni e la sua vita dovrebbe continuare. Ecco perché non escludo di raccontare questo, ciò che accade a qualcuno che crede di essere finito. Si vedrà». 
Cominciamo naturalmente da «Berta Isla» e dalla sua grande fortuna critica. Non solo qui in Italia, dove Claudio Magris ha scritto sul «Corriere della Sera» che «come Musil, pure Javier Marías — anche se in senso diverso, più epico, più romanzesco — narra la realtà, le possibilità germinali in essa e, quando la conoscenza della realtà si fa incerta e lacunosa, le illazioni su ciò che è potuto, può e potrà accadere». Le volevo domandare se uno scrittore può scoprire qualcosa che non sa sui suoi libri grazie ai critici, agli studiosi, ai lettori. 
«Oltre a essere molto intelligente, Claudio Magris è enormemente generoso. Sono felice che qualcuno come lui e anche altri critici, studiosi e lettori apprezzino quello che scrivo. È una fortuna e un onore. Però, disgraziatamente, più passa il tempo e meno credo in quello che si dice o si scrive sui miei romanzi. Mentre sono al lavoro mi sembra sempre che siano brutti, e a volte continuo a pensare la stessa cosa anche dopo che li ho terminati, solo che poi lo faccio “leggermente, di sfuggita” per così dire, perché non penso quasi mai di nuovo a loro. Sono finiti, ormai restano come sono; sono pubblicati, ormai non c’è rettifica o miglioramento possibile; pertanto sono ormai “irrimediabili”, come lo è il passato in generale. Se il romanzo in questione ha un buon successo di critica o di vendita, me ne rallegro molto e ne sono grato. In caso contrario, lo accetto. Con questo voglio dire che, dopo quarantotto anni (quasi) dalla apparizione del mio primo romanzo, quando ne avevo diciannove, non è che non possa scoprire qualcosa che viene segnalato con intelligenza o con acume da un critico o da un lettore. Certo che posso. La questione è che non mi interessa molto “scoprire” qualcosa su quello che ho già scritto». 
È accaduto sempre così? 
«Quando ero più giovane ne vedevo l’utilità per le opere future. Ora ho la sensazione che l’apprendistato sia concluso. Pensare ai miei romanzi passati, sia pure al più recente, mi sembrerebbe un atto tanto narcisista quanto pensare a me, a quello che sono stato o a quello che sono. Non ho curiosità per me stesso, nemmeno per quello che ho scritto. Lo ho scritto meglio che ho potuto, questo è tutto. Ormai è come è, e un’opinione positiva non lo renderà migliore, né una negativa lo renderà peggiore». 
Il premio de «la Lettura» è andato l’anno scorso a «Tra loro» (Feltrinelli), il libro in cui Richard Ford racconta la vita dei suoi genitori. È possibile parlare invece nei suoi romanzi di un uso occulto, mascherato, indiretto o parziale della memoria familiare? 
«Nei mei romanzi, come nella maggioranza di quelli che sono stati scritti nella storia, ci sono elementi inventati e elementi che provengono dalla mia esperienza o da vicende familiari. L’origine dei materiali è per me indifferente. Tutto è subordinato alla costruzione di una storia, e a un filtro letterario, che deve annullare le origini diverse. Io scrivo opere di finzione (con l’eccezione di Nera schiena del tempo che comunque aveva poco di autobiografico) e attingo ad elementi diversi, come senza dubbio fecero Cervantes o Dickens con le loro, o Faulkner, o Conrad o Bassani. In più di un’occasione ho detto che non avrei mai scritto una autobiografia, né memorie, né un diario perché non ne vedo l’interesse. Se avessi condotto una vita eccezionale, o avventurosa, forse sì. Però non è questo il mio caso, o così mi sembra. Adesso ci sono troppi romanzieri dediti a raccontare le loro pene oppure – se non ne hanno sofferte – le loro cose di poco conto, le loro vite ordinarie o intercambiabili. Quando li leggo, e con poche eccezioni, mi annoio mortalmente. È come se a molti autori fosse stata data licenza di non immaginare. È da molti anni che ho detto che perfino il vissuto è necessario comunque immaginarlo per poterlo raccontare bene. Nell’epoca esibizionista in cui viviamo, forse non è strano che si stia producendo questo fastidioso fenomeno di persone incapaci di distinguere ciò che è interessante da ciò che non lo è. Quello che è accaduto a loro pensano che lo sia, solo per questo, perché è accaduto a loro. Non avrò mai un atteggiamento del genere».
Al di là dell’intreccio legato al mondo del segreto, «Berta Isla» può essere letto a mio avviso anche come la storia di un amore (quello della protagonista per il marito-spia Tomás Nevinson) che l’attesa, la lontananza forzata e il «non sapere» rende precario, doloroso. Ma non è forse questo il paradigma di tutti gli amori? Non dovremmo pretendere anche noi, sempre, che l’altro ci faccia posto «non più di quanto non decida o non desideri»? 
«Sì, certo. Come sa, parto dal presupposto che tutto e tutti sono inconoscibili. Che sappiamo pochissimo, con certezza, sia della storia, sia delle persone vicine, sia di noi stessi. In un matrimonio, d’altra parte, vedo questo più come una benedizione che come una maledizione. Se la persona più vicina rimane essenzialmente sconosciuta con il passare degli anni, significa che contiene ancora del mistero, che non è qualcuno “risaputo” che ormai non vale la pena di osservare né tantomeno guardare o ascoltare. È molto difficile essere attento (sia nel senso di prestare attenzione che di essere “premuroso”) verso chi non risveglia più curiosità. Ci disinteressiamo delle persone che si possono prevedere, come lo facciamo dei romanzi che si possono predire. Per questo conviene non voler sapere tutto, non essere esaustivi, avere e subire segreti. Proprio il contrario di quello che fa troppa gente nella nostra epoca».
«Berta Isla» è forse anche un romanzo sulla morte, nel senso che si può sostenere che in questo libro i morti si ribellano alla morte, come succede a Berta e Tomás, due vivi in un certo senso privati della vita. È possibile dire che la presenza tra i vivi di chi è morto sia un elemento del suo «pensiero letterario»? 
«Sì, senza dubbio. Mi è sempre risultato impossibile non continuare a contare su coloro che sono stati nella mia vita e non lo sono più. Spesso penso a chi è morto come qualcuno che da tempo non vedo, niente di più. Non si cancellano i sentimenti, l’amicizia, per l’“accidente” che una creatura amata sia scomparsa. Si continua a tenerla presente, si continua a contare su di lui o su di lei. Non solo nel passato, nel presente. Diciamo che i morti lasciano una traccia e che questa traccia è a volte interminabile, ci accompagna per il resto delle nostre vite. Inoltre sarebbe egoista “staccarsi” da loro semplicemente perché a partire da un dato momento non esiste più “reciprocità”».
La pittura entra spesso nelle sue trame, come sa chi ricorda — per fare solo un esempio, in «Il tuo volto domani» — le riflessioni di Jaime Deza sui dipinti nelle sale del Prado. Che legame esiste tra la pittura e i suoi romanzi? 
«Non c’è mistero. Leggendo soprattutto Panofsky, molti anni fa, scoprii l’immenso piacere di vedere un’immagine e allo stesso tempo leggere una descrizione o un’interpretazione di quella immagine». 
Quale è la ragione per cui, visto che di finzioni si tratta, troviamo quadri, foto, manifesti riprodotti nelle pagine? 
«Se le immagini di cui si parla in un mio romanzo sono reali – che siano fotografie, quadri, manifesti – mi sembra giusto che il lettore le possa contemplare. La prima volta che lo feci fu nel 1989, in Tutte le anime (il mio amato Sebald, che ha introdotto anche lui immagini nelle sue opere, non aveva ancora iniziato a pubblicare i suoi libri). Ricordo ancora la sorpresa e le obiezioni dell’editore. Oggi chiunque lo fa con grande tranquillità nelle opere di finzione. E non c’è niente di strano. Per quanto riguarda i quadri, la rimando alla disperazione di Mateu, il guardiano del Prado, in Un cuore così bianco: lo irritava sapere che non avrebbe mai visto il volto di una giovane dipinta di spalle...».
In «Berta Isla» si legge che «qualunque segno di cortesia, di distinzione o di cultura» era malvisto o sentito come un’offesa «negli anni Novanta che annunciavano il nuovo rancoroso secolo». Una profezia retrodatata. Il rancore è diventato uno dei sentimenti-chiave della nostra epoca? 
«Senza dubbio. Un rancore fomentato, un risentimento “creato” nella maggioranza dei casi. Recentemente ho scritto un articolo su questo. Tutti possono essere risentiti, perfino la persona più privilegiata (si veda il clamoroso esempio di Trump, che trasuda rancore pur essendo milionario e l’uomo più potente della terra). È molto facile risvegliare questo sentimento in qualcuno. C’è gente che ha ragioni da vendere per essere risentita, ma se si converte il rancore nel movente delle azioni il disastro è assicurato. È lecito averlo (se esiste un motivo oggettivo) ma non mostrarlo quotidianamente e trasformarlo in una guida perpetua. Perché va sempre contro qualcuno, spesso un qualcuno immaginario, e questo è devastante per chi ne è vittima. Basare l’esistenza sull’affronto è di una povertà assoluta, di una terribile sterilità. Non dico che non possa essere a volte “produttivo”, però solo se è accompagnato da altri fattori, fosse anche soltanto l’ambizione. Se rimane da solo non c’è niente di più distruttivo verso gli altri e verso se stessi». 
Peter Wheeler, l’illustre ispanista che recita una parte importante nello sradicamento di Nevinson, gli dice che «la vita di chiunque è dappertutto; è dove va, dove gli capita». Che effetto le fanno i rigurgiti di nazionalismo, sovranismo anti-europeo, attaccamento alle radici locali dei quali siamo spettatori? 
«Un effetto deprimente. E ridicolo. L’atteggiamento di tanti europei attuali (e non solo europei) mi ricorda un personaggio esilarante di un film di Mankiewicz, The Late George Apley, su una famiglia antiquata e retriva di Boston. Una signora di questa famiglia dice: “Ogni volta che mi sento depressa, mi ricordo che sono una Apley”. Come se questa ovvietà e questa constatazione la rendessero migliore. Oggi c’è gente che dice: “Ogni volta che... mi ricordo che sono catalano, o basco, o italiano, o ungherese, o polacco”. È molto grottesco, e denota un grado di imbecillità che ormai credevamo bandita da molti anni». 
C’è uno dei suoi romanzi a cui è più legato? Oppure, se fossimo obbligati a usare la formula «l’autore di...», quale titolo potremmo inserire al posto dei puntini? 
«Il secondo non lo so. Lo deciderà il tempo, se il tempo avrà la bontà di ricordarmi. Io provo una simpatia speciale per un romanzo, Tutte le anime, e tra i miei preferiti c’è Vite scritte, che sono ritratti brevi di scrittori. Mi sono divertito molto a scriverli e la gente si diverte leggendoli. Però credo che il migliore sia Il tuo volto domani. È chiaro che quello che io credo è privo di importanza. In realtà penso che siano stati meglio accolti tre romanzi successivi Gli innamoramenti, Così inizia il male e Berta Isla, mentre in linea di principio io li considero delle “aggiunte”, nel senso di bis. Non si può mai sapere che cosa funzioni meglio o peggio».
Sappiamo quali autori ama, forse Shakespeare e Sterne in primo luogo. Pensavo di citarle tra gli altri Conrad, Proust, Nabokov, Sebald, chiedendole se esista un filo in grado di unire questi nomi. 
«C’è anche Cervantes, che ha legami con quasi tutti gli autori menzionati, soprattutto naturalmente con Sterne. No, non credo che esista un filo che li unisca... Guardi, poco tempo fa un libraio londinese, la cui libreria antiquaria ho visitato spesso, mi ha scritto che per la varietà dei miei interessi di acquirente, non ha mai saputo “etichettarmi” come cliente. A differenza di quello che fa con la maggioranza degli altri. Forse perché sono molto eclettico nei mei gusti e nei miei interessi, quasi tutto mi può interessare. Leggo romanzi, novelle, poesia, saggi, storia, teoria dell’arte, filosofia, racconti dell’orrore o di fantasmi. Non ho mai disdegnato la letteratura “popolare”, la vedo complementare a quella che si chiama a volte “letteratura di qualità” o “elevata”. Provo un rispetto differente per Dumas e per Proust (e il secondo mi attrae di più) però non un rispetto minore. Rispetto molto, perfino ammiro, quello che io non saprei fare. E di sicuro non saprei scrivere Il conte di Montecristo(nemmeno l’opera di Proust, naturalmente)».
Ha fatto qualche scoperta recente? 
«Leggo poche cose contemporanee, ragione per cui è difficile che faccia “scoperte”. Mi sono tenuto aggiornato per molti anni, però si finisce per perdere troppo tempo: ogni dieci libri “meravigliosi” secondo la critica o la moda, nove sono solitamente deludenti. Così è stato sempre e così sarà. Guardi, se non fossi obbligato a scriverli, non leggerei nemmeno i mei romanzi. Penserei: “Questo Marías, bah. Ci sono troppi classici che non ho ancora letto per avventurarmi su uno spagnolo di oggi...”». 
Quali libri tiene sul comodino? 
«Oltre ad alcune novità che, nonostante tutto, mi vedo obbligato a leggere per cortesia o per assoluta curiosità, La morte di Napoleone di Simon Leys (mi piacque molto I naufraghi del Batavia). Voglio rileggere ora un piccolo libricino che mio padre, Julián Marías, scrisse nel 1980, La Guerra Civil ¿cómo pudo ocurrir?. Credo che ora lo farò con più preoccupazione che a suo tempo. Inoltre tengo sempre a portata di mano classici romani e bizantini che non trovo mai il momento di leggere». 
Lei non ama parlare di quello che sta scrivendo e spesso cambia la direzione del cammino. Ma le vorrei ugualmente chiedere di fornirci un altro indizio sul suo lavoro attuale. 
«Beh, già lo ho detto. Sono curioso di sapere che cosa è stato di Tomás Nevinson dopo il suo ritorno a Madrid. Troppo giovane (anche se vecchio e quasi morto nello spirito) per rimanere il resto della sua vita a contemplare gli alberi davanti alla casa di Berta, sua moglie. Però non sono ancora sicuro se soddisferò questa curiosità».