Corriere della Sera, 6 febbraio 2019
La verità di Covacich
Due moderni coniugi Arnolfini in uno sfondo bucolico nordico campeggiano sulla copertina di Di chi è questo cuore , nuovo romanzo di Mauro Covacich in uscita domani dalla Nave di Teseo, editore da cui è uscito anche il precedente La città interiore , libro modellato intorno a una immagine personale e storica di Trieste, e che ha da poco ripubblicato anche il cosiddetto «ciclo delle stelle», quattro romanzi in cui la narrazione ruota intorno a identità e finzione. È questo il cuore della narrativa di Covacich ma il cuore (a cui fa riferimento il titolo) è anche quello del protagonista, il personaggio-persona Mauro Covacich.
Nella prima pagina del romanzo una sonda manovrata da una cardiologa fumatrice perlustra piano, alla cieca, il suo petto prima di dirgli che è meglio che stia per un po’ a riposo. La sospensione dell’attività fisica, fino ad allora praticata con una certa mentalità agonistica, diventa il pretesto per un «giro intorno al corpo» che partendo dall’autobiografia, come è consueto nelle opere di Covacich, diventa una interrogazione sul presente, nel segno di quella «intimità pubblica» mutuata dalla francese Sophie Calle la cui carriera artistica è nata pedinando la gente a Parigi dove era tornata dopo un viaggio in Oriente (le Filatures parisiennes, scrive Covacich, sono «dialoghi muti di persone che, senza mai entrare in contatto, finivano per appartenersi»).
In Di chi è questo cuore Covacich mescola riflessioni di varia natura (alcune nate da articoli pubblicati sulle pagine de «la Lettura») a episodi e personaggi che popolano il Villaggio Olimpico dove vive e altre zone di Roma (gli «zingari napoletani», il clochard Arcimboldo) a fatti di cronaca, come quello del ragazzo morto in un albergo milanese durante una gita scolastica, caso di cui Covacich rinuncia a scrivere per il «Corriere» ma a cui è costretto ad avvicinarsi, quasi «manovrato da una forza superiore».
Lo scrittore mette in scena sé stesso e il suo mondo («i personaggi di questo romanzo sono persone. Anche i nomi sono gli stessi a cui rispondono nella vita» avverte nella nota) quasi in una sfida alla verità ultima. Così l’osservazione, durante una corsa sull’argine del Tevere, di un branco di tre cani, lo induce a una riflessione sui «cattivi», sulla tentazione di vivere nascosti, prigionieri (captivi appunto) in quel «genere di mute che Elias Canetti chiama cristalli di massa» e in cui è facile ritirarsi perché diventare individui significa rispondere a un appello. «E io sono stato cattivo» scrive Covacich ricordando quei giorni del 1976 quando il compagno di classe Umberto, con cui la mattina faceva la strada per andare a scuola e che poi, appena entrato in classe, diventava anche per lui lo zimbello da torturare, gli impartisce una lezione che lo costringe a uscire dal branco e ad assumersi la sua individualità: «Ma tu perché quando siamo soli sei sempre così gentile con me?».
Non cedendo alle tentazioni del mondo virtuale (a differenza della madre a cui la scoperta di Facebook offre una tardiva e ricca vita di relazione) ci sono le ventiquattro ore trascorse senza parlare con nessuno, la solitudine del maratoneta da tapis roulant in una giornata tipo che inizia con il prelievo al bancomat, prosegue con la palestra dove anche al tornello c’è una voce automatica e poi al supermercato dove scegliere la frutta, pesarla, etichettarla non richiede alcuna interlocuzione perché «la vita non è mai qui, non è mai ora» ma è dislocata, differita, sempre altrove, un pratica da espletare laggiù «alla fine dell’allenamento o del viaggio o della giornata, oppure, il che è lo stesso, sta già avvenendo in ogni momento, costantemente, nell’universo parallelo della rete».
L’alter ego creativo, l’uomo grasso che di notte entra in casa sua come un fantasma, si sbraca sul divano, fuma, mette zizzania con Susanna, il clandestino prodotto dall’inconscio, o dal super-io, gli impone l’obbligo della verità («si è sinceri solo quando la verità comporta un costo, non quando ci guadagni qualcosa») costringendolo a uscire dall’equivoco autoassolutorio e letterario della fiction. È lui che lo spinge a scrivere del Comune di Padova, di quella assurda vicenda del pagamento di una conferenza a cui è stato invitato e della lunga pratica, mail, competenze, marche da bollo, documenti originali, numeri di protocollo, che risale lungo tutto l’albero burocratico-organizzativo, senza mai nominare quell’aggettivo, abusato, derivato dall’opera di un grande scrittore su un certo agrimensore.
Tutto – il desiderio, la solitudine, la fiducia, il quotidiano, il ricordo —, viene chiamato davanti al banco di prova della relazione del protagonista-autore con Susanna, anche un pezzo sul diario di Hetty Hillesum, la ragazza olandese morta ad Auschwitz a 29 anni, secondo innamoramento dopo Anne Frank che, scrive Covacich, «non mi sembrava una testimone semplicemente mirabile, semplicemente emblematica, delle atrocità nazista, bensì l’oracolo inaudito della verità dell’essere». Di chi è questo cuore è un’avventura intima e personale che ha una potenza universale, capace di ricondurre a unità i frammenti del reale in cui siamo immersi.