Avvenire, 6 febbraio 2019
I venezuelani sono dimagriti due chili in un anno
«No hay mal que dure cien años, ni cuerpo que lo resista», non c’è un male che duri cent’anni, né un corpo che possa resistergli, recita un proverbio venezuelano, ripetuto in questi anni come un mantra da chi auspica un cambiamento democratico che ponga fine al regime post chavista di Nicolás Maduro, in carica dal 2013. E il fatto che il governo del delfino del colonnello Hugo Chávez, che già aveva retto il Paese dal 1998, possa essere rappresentato come una malattia logorante, la dice lunga sullo stato di sopportazione del popolo venezuelano, la cui fiducia nelle sorti del socialismo in salsa bolivariana è andata evaporando di pari passo col crescere di povertà, criminalità, corruzione, autoritarismo e violazione dei diritti umani.
A chi, anche qui in Italia, continua a rappresentare lo scontro in atto in Venezuela solo come un risiko geopolitico, un ’golpe pilotato’ per il potere nell’Eldorado petrolifero (Juan Guaidó contro Nicolás Maduro, il muchacho sostenuto dagli Usa contro l’epigono della revolución chavista, amico di Cuba e spalleggiato da Russia e Cina) sfugge evidentemente il nocciolo della questione: sono le angoscianti condizioni di vita a spingere in piazza, ormai da anni e a prezzo di una dura repressione, milioni di venezuelani (compresi tanti ex chavisti) per chiedere pacificamente un’inversione di rotta, che rimedi al disastroso mix di ideologia, incompetenza e malaffare che ha fatto precipitare un Paese complicato ma ricco di risorse (oltre al greggio, oro, ferro, bauxite, uranio, coltan, diamanti e altro ancora) nella crisi più buia della storia recente.
Il ventennio della Grande Illusione chavista, dal 1998 a oggi, ha desertificato l’economia: in 5 anni, il Pil è precipitato da 480 miliardi di dollari a 93; l’iper inflazione è arrivata a un milione per cento, con proiezioni di 10 milioni per cento nel 2019. Col bolivar super svalutato, il salario minimo mensile, secondo la Caritas, basta a comprare appena 24 uova o un piccolo hamburger. Perfino l’industria del greggio ha frenato: da 2,4 milioni di barili al giorno del 2015 a 1,4 odierni. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: in un Paese che importava il 70% dei generi alimentari, è arrivata la fame nera, coi supermercati vuoti e il 90% della popolazione in povertà. Denutrizione, carenza di medici e medicine hanno accresciuto la mortalità infantile e rinvigorito malattie debellate da decenni. La criminalità dilaga, con 20mila morti l’anno. Una crisi umanitaria senza precedenti, che ha innescato una diaspora: 4 milioni di venezuelani, in molti casi giovani e con titoli di studio, sono emigrati, con scene da esodo biblico alle frontiere. Fra loro, migliaia di italovenezuelani, in un Paese dove ancora resistono oltre un mi- lione di oriundi e 160mila iscritti all’Aire, le cui pene Roma per troppo tempo ha ignorato. Nel frattempo, Russia e Cina hanno approfittato del tracollo per colonizzare economicamente il Paese, acquisendo a prezzi modici asset e materie prime.
Un contesto che è opportuno ricordare per comprendere l’anelito di un popolo allo stremo, che chiede di mandare in soffitta un governo incapace di ammettere il proprio fallimento. Il cuerpo dei venezuelani è ormai fragile e non resisterà ancora per molto: dal 2017 ogni cittadino è dimagrito, in media, di 9-10 chili in un anno.
C ome se non bastasse, nell’inquietante parabola del post chavismo, al malgoverno si sono sovrapposte le ombre del ma-laffare. Le tracce di una corruzione pantagruelica ad opera di ex dirigenti chavisti stanno affiorando in mezzo mondo: nella sola Andorra, staterello ’bancario’ a ridos- so dei Pirenei, s’indaga su tangenti per 2 miliardi di euro, versate sembra da aziende cinesi in cambio di contratti petroliferi col colosso venezuelano Pdvsa. E negli Usa e in Svizzera sono stati congelati cospicui conti bancari intestati a esponenti istituzionali: dall’uomo forte dei militari, Diosdado Cabello, alla presidente del Consiglio nazionale elettorale, Tibisay Lucena Ramírez, fino al presidente del Tribunal supremo de Justicia, Maikel Moreno, al ministro dell’Interno Néstor Reverol e ai vertici dell’intelligence. Il solo fatto che, mentre un Paese intero è stretto fra fame e inflazione, governanti, militari e alti magistrati abbiano accumulato depositi all’estero in valuta pregiata fa indignare i cittadini.
E nel catalogo delle presunte malefatte, c’è di peggio. La Dea e le autorità statunitensi accusano di collusione col narcotraffico alcuni esponenti dell’esecutivo, il vicepresidente Taireck El Aissami e il solito Cabello, e hanno processato due nipoti della primera dama Cilia Flores, consorte del presidente, per un presunto carico di 800 chili di cocaina da importare negli Usa. Uno scenario che ha indotto vari analisti a parlare di narco-régimen.
Infine, c’è la tegola sul presidente. Diversi Stati americani (dal Canada al Cile, dall’Argentina alla Colombia) hanno denunciato Maduro per crimini contro l’umanità. L’accusa è al vaglio del Tribunale penale internazionale dell’Aja, che a dicembre ha incaricato tre magistrati della fase istruttoria.
Situazioni che pesano come macigni sull’orizzonte politico del Madurismo e, di riflesso, sulla bilancia di quel ’dialogo’ chiesto dall’inquilino delPalacio de Miraflores, che invoca la mediazione del Vaticano, ma senza aprire al voto anticipato. Dal canto suo, l’opposizione non si fida del caudillo: Maduro bluffa per guadagnare tempo, è la convinzione. E così Guaidò tira dritto, con una legge di «transizione», forte del riconoscimento ricevuto da molte nazioni, compresi 21 Stati europei.
Un groviglio, insomma, per il quale le elezioni presidenziali rappresentano l’unica via d’uscita democratica (possibilmente con osservatori Onu e ritorno al voto cartaceo, visti i sospetti addensati in passato su quello elettronico). Ma non basterà indire elezioni. Occorrerà arrivarci pacificamente e, dopo, garantire il rispetto del risultato sancito dalle urne. Sembrerebbe banale, ma non lo è. Nelle parlamentari del 2015, lo ricordiamo, i venezuelani avevano già dato un sonoro avviso di sfratto al chavismo, assegnando i due terzi dei seggi dell’Assemblea nazionale all’opposizione. Ma Maduro, spiazzato, ha innescato un conflitto fra poteri, esautorando di fatto il Parlamento, arrestando con accuse pretestuose centinaia di oppositori politici (alcuni di loro, torturati in carcere, hanno ricevuto nel 2017 il premio Sacharov) e restando in sella, grazie a elezioni presidenziali offuscate dal sospetto di brogli e non riconosciute da parte della comunità internazionale. Ora quello strappo costituzionale, come un boomerang, gli è tornato indietro, perché l’Assemblea ’esautorata’ ha replicato disconoscendolo e incaricando Guaidò come presidente ’interinale’. Un colpo di scena salutato da milioni di connazionali, nel Paese e all’estero, come un segno di speranza, per dirla coi vescovi venezuelani, per i quali il popolo soffre «per l’azione governativa» ed è «moralmente inaccettabile» pretendere di mantenere «a tutti i costi il potere, prolungando fallimento e inefficienza ». T uttavia, lo stallo accresce le tensioni, in un Paese in cui le forze armate – ancora fedeli a Maduro, ma con le prime defezioni di peso – rappresenterebbero sulla carta l’unico possibile argine a bande criminali e milizie filogovernative (i cosiddetti colectivos), armate e impunite. L’incubo di una guerra civile, di un bagno di sangue, temuto ed evocato da Papa Francesco, è il primo scenario da scongiurare. Per ora, dopo i 43 morti e i quasi mille arresti dei giorni scorsi, la repressione si è fermata. La folla che sabato ha riempito le strade di Caracas, Barquisimeto, Maracaibo e del resto del Paese, era pacifica e disarmata. E da giorni canta e prega per «una Venezuela libre», indossando i colori della bandiera, contrapposti alle franelas rojas chaviste, sempre più sparute. Dopo anni di politiche disastrose, il bravo pueblo venezuelano ha diritto a chiedere un cambiamento, attraverso elezioni democratiche.
Il dovere della comunità internazionale, e dell’Italia se vorrà aggregarsi, è di vigilare sulla trasparenza e sulla correttezza della possibile transizione, evitando colpi di mano interni e ingerenze esterne. Il Venezuela ha intelligenze e risorse da vendere e merita un futuro migliore, determinato dal voto libero dei propri cittadini. Per non essere più ostaggio di un regime fallimentare, ma nemmeno il ’cortile di casa’ di alcuno, né di Washington, né di Mosca.