il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2019
Così l’algoritmo archivia il curriculum
Oltre 12.500 interviste realizzate, circa 16 mila candidati per un posto di lavoro, invitati a registrare un video da presentare assieme al curriculum, rispondendo a un set di domande pre-impostate. Sono i numeri degli ultimi due anni di un’azienda francese che offre, anche in Italia, un servizio di ricerca personale basato sull’intelligenza artificiale e su un algoritmo che ha il compito, analizzando questi video, di compiere una prima scrematura tra gli aspiranti lavoratori e selezionare i fortunati che saranno poi analizzati dai recruiter in carne e ossa. Il ricorso all’intelligenza artificiale per assumere personale è in aumento. A essere tenuti in considerazione, nelle fasi di pre-screening sono – oltre alle risposte a quiz e test attitudinali – espressioni facciali, cambi di posizione, tono della voce e scelta delle parole del candidato davanti alla telecamera. Insomma, non solo non serve più il vecchio curriculum ma anche la prima impressione è affidata a una macchina.
Hirevue, ad esempio, è il sistema inglese utilizzato anche da Unilever e Goldman Sachs: il programma chiede ai candidati di rispondere alle domande dell’intervista davanti a una telecamera mentre il suo software, ha raccontato il Guardian, agisce come una squadra di psicologi che si nascondono dietro uno specchio. Prende atto di cambiamenti appena percettibili nella postura, nell’espressione facciale e nel tono vocale. Le risposte vengono spacchettate in segnali verbali e non verbali (gli occhi che si spostano verso l’alto, la posizione della testa e così via), il programma trasforma questi dati in un punteggio, che viene poi confrontato con quello già sviluppato basandosi sulle risposte e i comportamenti dei dipendenti più efficienti. Secondo una recente ricerca di LinkedIn (Global recruiting trends) su 9 mila professionisti e manager, uno dei maggiori vantaggi dell’automatizzazione del recruiting è il risparmio di tempo per il 67% del campione e di risorse economiche per il 30%. Inoltre, per il 31% l’intelligenza artificiale permette una migliore efficienza del processo di selezione. Per le aziende, insomma, il vantaggio sta nella riduzione del carico lavorativo. Tesco, il più grande datore di lavoro privato in Gran Bretagna, nel 2016 ha ricevuto oltre tre milioni di domande. Ma Amazon è stato uno dei primi ad accorgersi dei limiti del sistema. L’azienda, come rivelato da Reuters, aveva provato a sviluppare un algoritmo che valutasse i candidati con le stesse stelline di gradimento utilizzate per recensire i prodotti. Si è, però, accorta presto che la macchina, nell’istruire se stessa sulle informazioni disponibili (il cosiddetto machine learning), tendeva a privilegiare gli uomini e a sviluppare modelli che discriminavano le donne, visto che il mondo delle tecnologie è dominato da lavoratori maschi.
Senza contare le falle. Basta guardare nei forum online per scovare studenti e aspiranti lavoratori che si scambiano le risposte ai test automatici, creano applicazioni per aggirare la valutazione e imbrogliano il sistema di ricerca. “Basta far scivolare le parole ‘Oxford’ o ‘Cambridge’ in un curriculum in testo bianco invisibile per passare lo screening automatico”, spiega un dipendente americano di una azienda tecnologica.
Uno dei principali fornitori di servizi per il recruting smart in Italia è Visiotalent, una startup francese. Nel 2018 ha stretto una partnership con Generali Assicurazioni, prima l’aveva già con Prysmian. “Non usiamo un video curriculum – spiega al Fatto Andrea Pedrini, il country manager per l’Italia – ma un percorso di video domande dove il candidato si esprime, si racconta e risponde a quesiti pre-impostati dal selezionatore al fine di effettuare la migliore selezione”. Anche in questo caso c’è un algoritmo che fa una prima scrematura, il concetto di base è che video e intelligenza artificiale siano in grado di far valutare meglio le soft skills (capacità interpersonali, motivazione, comunicazione, predisposizione al lavoro di squadra) del candidato.
“Permettiamo alle aziende di acquisire maggiori informazioni sul candidato in minor tempo. E al candidato di mettere in mostra le proprie qualità e comprendere meglio l’azienda. In Francia il 30% di quanti si sottopongono a questo processo di selezione vengono poi assunti”. Non c’è, però, l’intenzione di sostituirsi all’uomo, semmai di supportarlo. “Nella gestione dei big data, la macchina performa meglio rispetto all’essere umano. Sul mercato esistono già realtà che grazie alla semantica e agli algoritmi intercettano informazioni sui curricula che un occhio umano farebbe fatica a vedere. Noi aiutiamo in questo, ma la valutazione di un candidato può essere fatta solo da un selezionatore ‘umano’ che intuisce, osserva e comprende la persona e il contesto in cui deve inserirla”. Anche perché automatizzare non pone solo un problema di efficienza, ma anche di etica. “Quando parliamo con le aziende – conclude Pedrini – cerchiamo di sensibilizzarle sul fatto che prima di usare strumenti di analisi facciali e valutazioni su elementi soggettivi automatizzati, dovrebbero sapere cosa ne pensa il candidato: il processo di talent acquisition rientra in un ambito etico”. La risposta, però, potrebbe essere poco incoraggiante. Da diverse analisi fatte sul mercato del lavoro risulta che più del 70% dei candidati non vuole essere valutato da una macchina e se lo scopre cade il presupposto di fiducia nell’azienda che lo sta selezionando.