la Repubblica, 6 febbraio 2019
Il rapido addio di Savona
Toccata e fuga dal governo del Popolo e del Cambiamento per Paolo Savona che a 82 anni molla la poltrona di ministro per approdare, non proprio agevolmente, alla Consob. Non è un buon segno per l’esecutivo nazional-popolare, ma neanche lo è per un personaggio attorno a cui si era scatenata una questione che, per il veto posto dal Quirinale, appariva insieme politica e istituzionale, di principio e di dignità personale ma siamo pur sempre in Italia dove le vie d’uscita si trovano sempre.
Così, ripensando con un po’ di distacco alla strabordante reazione dei futuri vicepresidenti del Consiglio, ma anche allo sdegno dello stesso Savona che arrivò a paragonarsi a Galileo Galilei costretto all’abiura, l’addio del ministro per l’Europa finisce per riassumersi nella domanda: non poteva pensarci prima? E la risposta è che forse anche sì, per quanto il dubbio, il ripensamento e il mea culpa risultano del tutto estranei al carattere dell’imminente presidente dell’organismo di controllo della Borsa. Che certo è un uomo d’ingegno e di autorevolezza, e che per esperienza vissuta conosce il vero potere come nessuno dei due giovanotti, uno neo-sovranista e l’altro appena passato dal vaffa alla democrazia diretta, potevano nemmeno immaginare.
Da Ugo La Malfa a Guido Carli, da via Nazionale alla Confindustria passando per la filiera laica delle banche, fra Romiti e Cossiga fino al vertice di quei fondi finanziari internazionali che alcuni dell’odierno governo vedono come centri del demonio, Salvini e Di Maio avevano inizialmente arruolato Savona all’Economia nella speranza recasse in dote un pensiero che sarebbe qui semplicistico designare anti-europeo, ma che un po’ lo era, e comunque tale da impensierire il presidente Mattarella. La conseguente immolazione a un dicastero di serie B, così come il fatto che proprio a lui venne attribuita a mo’ di contentino la scelta del professor Tria, non furono, a rifletterci con il senno di poi, la migliore partenza. Ma tant’è. Per cui alto suonò il proclama: «Abbiamo gettato il guanto di sfida alla vecchia Europa».
In realtà, senza più ideologie, culture politiche e progetti di lungo respiro, si ha pur sempre qualche scrupolo a osservare e interpretare le parole, i percorsi e le mosse dei protagonisti in base alla loro soggettività, quindi attraverso impulsi, sentimenti, simpatie, antipatie, ambizioni, frustrazioni e antiche rivalità. Ma tocca anche dire che spesso al giorno d’oggi, come usava dire quell’altro potente di diversa parrocchia, Andreotti, ci si azzecca. Così, fin da subito, la sensazione fu che Savona avesse messo al servizio dei Novissimi, invece che un semplice, generico o ragionato estremismo anti-Ue, un qualche risentimento, o almeno una volontà di rivalsa verso ambienti del suo mondo, ma dai quali riteneva di aver patito, magari anche a ragione dal suo punto di vista, qualche torto.
Non sono cose, d’altra parte, che si vanno a certificare dal notaio. Né, per quanto Savona abbia recentemente sostenuto che l’economia è «un grande imbroglio politico», s’intende qui sminuire la battaglia delle idee con puro gossip di potere. E tuttavia, riguardo a quel trasporto che in un primo momento lo aveva portato ad assecondare Salvini e De Maio, c’è chi lo fa risalire addirittura all’atavica, mancata promozione a Governatore di Bankitalia (passò Ciampi); e chi, più aggiornato, a un’insofferenza nei riguardi della luminosissima stella di Mario Draghi. Fermo restando che esiste comunque una terza scuola che attribuisce l’ardente spirito d’indipendenza alla più classica “tigna” isolana, la stessa che nell’arco di oltre 40 anni lo ha visto ad esempio ingaggiare accese dispute para-condominiali: da quella con certi fratelli, pare di ricordare, aderenti all’Unione Piccoli Proprietari su un appartamento dalle parti di via Merlulana alla recentissima controversia per cui il ministro si sta battendo contro la nuova Rinascente che, non solo a lui, ha tagliato un bel pezzo di panorama.
Sarà qui consentito non entrare nel merito. Ma vale ricordare che nei primi giorni del governo del Popolo qualche soddisfazione la ebbe, foss’anche una telefonata di felicitazioni di Steve Bannon, i gioiosi complimenti alla Link University, il parossismo di foto e telefonate dei media sulla teoria del Cigno nero e il piano B, come pure l’ammirata considerazione dei colleghi in Consiglio dei ministri quando il professore affrontava da par suo i temi economici.
In tal modo andò per tutta l’estate e un pezzo d’autunno. Ai primi freddi, metà novembre, qualcosa si deve essere rotto. Per cui, abbastanza di colpo: «La situazione è grave», «non me l’aspettavo», «la manovra è da riscrivere», «ma che fanno?», «non si può andare così». Nel frattempo il Capitano seguitava a sparare tweet e a travestirsi, mentre Giggino promuoveva Lino Banfi e dichiarava l’abolizione della povertà mettendo la card del reddito sotto vetro. Troppo, per Savona, e lo si può capire. Però, e francamente, anche troppo presto e al tempo stesso troppo tardi.