il Giornale, 5 febbraio 2019
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Biografia di Paolo Fresu raccontata da lui stesso
Telefonata poco prima dell’ora di pranzo per chiedere questo colloquio: «Sì venga, il maestro la riceve oggi pomeriggio». Davvero? «Ma dove siamo, in Svizzera?». No, a Milano, dove incontrare una star a volte è possibile, anche nel giro di poche ore, se questa si chiama Paolo Fresu, 58 anni tra pochi giorni, fuoriclasse italiano e planetario della tromba, forse il musicista più elvetico che esista, a proposito di disponibilità (e puntualità). Qualcuno che nonostante il successo si presenta come un anti-divo, alla mano, con un sorriso. Musica maestro, attacchiamo!
Per la star del jazz Paolo Fresu tutto è iniziato a Berchidda, provincia di Sassari.
«Da piccolo suonicchiavo l’armonica a bocca. Poi è arrivata la chitarra e andavo pure a sentire le prove dei complessini locali. La musica era sempre presente. Ho preso un mangiadischi quando avevo 13 anni, un avvenimento per il quale si mosse tutta la famiglia».
Non una vita da nababbi.
«Ma c’era quello che serviva. Con lo strumento ho iniziato nella banda Bernardo De Muro. La tromba era a casa perché mio fratello Antonello si era iscritto al corso. L’avevano messa sulla libreria per non farmela toccare. Ero affascinato da quell’oggetto che sapeva d’olio di pistoni. Per me ancora oggi il senso associato alla musica è quello dell’olfatto. Alla fine la tromba l’ho suonata io, andavo a studiare in campagna, sull’albero dove avevo costruito una casetta».
Che immagini le sono rimaste del suo paese?
«Mio padre era pastore e coltivatore. Quando potevo lo accompagnavo, tra le soddisfazioni c’era che, dopo aver munto le pecore, andavamo con la Fiat 500 familiare piena di balle di fieno alla cooperativa a portare il latte utile per il formaggio».
Vada avanti.
«Andavo anche in chiesa dove ho fatto l’apprendistato da chierichetto. Il prete si chiamava don Era, un prete rigoroso, poi c’era un parroco che si chiamava Delogu. Personaggi di un paese molto festoso. Quando ci ritorno suono con la mia banda, ho ancora la mia divisa, sto a fianco dei giovani che iniziano. Mi rivedo. Ai miei tempi i più bravini, dopo la processione, si fermavano al bar e improvvisavano dei ballabili».
E mamma e papà?
«Mamma si chiama Maria, mio papà Angiolino detto Lillino persona molto benvoluta in paese, saggia filosoficamente. Scriveva poesie, racconti, ha annotato migliaia di modi di dire, un archiviatore. Tra le sue massime di vita “nel cammino si aggiusta il carico” (in sardo in caminu s’accontzat barriu). Ho raccolto il materiale che ha lasciato in alcuni libri. Lui avrebbe voluto studiare, comunque era colto nonostante avesse fatto la terza elementare».
C’era una vena poetica...
«Mio padre andava in campagna, annotava su scontrini e piccoli pezzi di carta parole desuete, poi metteva tutto in un sacchetto di plastica. Ho portato questo materiale in seno a un vocabolario che sto preparando. Un giorno mi ha confessato che nella vigna se non aveva carta su cui scrivere, con un pezzo di vite annotava per terra le parole, che il giorno dopo tornava a ricopiare. Mia madre era figlia di una famiglia di dieci figli, sua mamma è morta quando era piccola. La terra dove oggi ho la casa a Berchidda, che per me è una sorta di buen retiro, era la terra e la casa dei nonni».
Un rifugio dove sono raccolti i suoi tesori?
«Se parliamo di tromba, per me è solo uno strumento. Non sono di quelli che parlano solo di questo. Più di tanto non ci capisco e non ci voglio capire. Con la tromba, anche se ne ho una quindicina e un flicorno che si chiama modello Fresu costruito da un importante artigiano olandese, voglio mantenere un rapporto di distacco, oggetti che restano un mistero, come del resto la musica».
Quando lasciò casa dove andò?
«Prima destinazione Sassari, dove mi sono iscritto e diplomato col massimo dei voti in una scuola per diventare perito elettrotecnico. Non avevo mai pensato alla musica come a un lavoro, suonavano per i matrimoni e le feste di piazza, le feste patronali, andavamo in giro con un furgone».
E che tipo di lavoro cercava?
«Dopo il diploma alla fine degli anni Settanta, periodo in cui le grandi aziende ancora chiamavano e offrivano un posto, sono stato contatto per un colloquio alla Sip, l’attuale Telecom. Ho rifiutato l’assunzione. Perché l’ho fatto? Mi sono detto ma a me questa cosa non mi interessa».
I suoi genitori sono rimasti delusi?
«Quando sono tornato in paese dissi ai miei quel che era successo, mi risposero che se questa era la mia decisione, andava bene così. Mio padre diceva nella vita fai quello che vuoi ma non il pastore. L’ho accontentato».
Insomma, tutto di testa sua...
«L’ultimo anno delle industriali mi sono pure iscritto al Conservatorio e dopo aver preso la licenza di Teoria e solfeggio sono stato chiamato a fare supplenze nelle scuole, allora si poteva. Poi ho iniziato a prendere contatti con dei jazzisti di Cagliari, in seguito le frequentazioni a Siena. Nell’82 ho conosciuto il pianista che è ancora nel mio quintetto, Roberto Cipelli, con lui abbiamo formato il primo gruppo, a mio nome».
Com’è stato lo sbarco nel Continente?
«L’arrivo è stato un po’ timido. Mi ha colpito una sorta di solitudine metropolitana, ricordo Roma. C’è un suono a proposito. Ripenso al trenino da Civitavecchia che entrava nelle periferie della capitale, allora decisamente desolate. In città vedevo tante persone isolate, venivo da un paesino e a questo non ero abituato».
Le partenze dall’isola saranno state dolorose...
«La Sardegna non mi mancava. Credevo di non essere andato via davvero. Ma quando rientravo a Berchidda venivo subissato dalle domande. A un certo punto hanno cominciato a chiedermi quando sarei ripartito. Allora lì ho capito che per loro ero andato veramente altrove».
Che cosa non ha ancora fatto?
«Tutte le cose che sono accadute in questi 35 anni sono state dettate da un sorta di casualità, che vorrei mi guidasse ancora. Però, una cosa che mi piacerebbe fare domani, è una sorta di format televisivo per raccontare il jazz attraverso la mia esperienza».
Ci sono stati incontri che le hanno cambiato la vita?
«Credo che non ci sia proprio un incontro che ha cambiato la mia vita. Anche se metterei in cima il mio quintetto, gli stessi musicisti fin dall’inizio. Poi grandi pianisti come Carla Bley e Uri Caine. Poi penso anche a Ornella Vanoni».
Eventi davvero memorabili?
«La serata al Teatro alla Scala, proprio con Uri Caine. Un posto dove sei nella storia e immagini che nei camerini c’è stata la Callas. A volte i concerti indimenticabili sono quelli inaspettati. Ho suonato in un centro del Cottolengo e nel carcere di Sassari».
Le cose che restano dentro...
«Ho collaborato con tanti artisti della Sardegna, come il cantautore Piero Marras e il maestro Luigi Lai. Le canzoni parlano di un insieme di cose che sono quell’identità che noi chiamiamo la sardità. Per me è il fatto che quando giro per il mondo, incredibilmente c’è sempre qualcuno che arriva a fine serata, magari solo per dirti che è del paese vicino al tuo. Insomma un’idea di appartenenza».
Qualche nome di chi tifa per lei?
«Tanti, recentemente ho incontrato al ristorante Antonio Albanese. Anni fa Marcello Mastroianni rilasciò un’intervista dichiarandosi mio grande fan. Ho ricevuto una mail dall’attore Omar Sharif, poi lo scrittore Jonathan Coe. Ogni tanto capitano politici. Appassionata di jazz l’ex ministro Cécile Kyenge, Dario Franceschini e Roberto Maroni. Tra gli altri volti famosi, Michelle Hunziker».
Apriamo lo spartito del privato, vuole attaccare maestro?
«Mia moglie, Sonia, anche lei di origine sarda, è una violinista. L’ho conosciuta a Faenza durante un concerto. È stato un colpo di fulmine, ci siamo sposati nel mio paese. C’erano duemila invitati. Per le nozze ho deciso di non lavorare due mesi. Nel 2008 la nascita del nostro bimbo, Andrea, emozioni enormi, la mia più grande esperienza».
Moglie e buoi dei paesi tuoi...
«L’incontro con mia moglie è stato casuale, a Bologna che è stato un po’ il teatro della nostra storia. Ci siamo trovati su un territorio comune, lei ha un quartetto d’archi che si chiama Alborada, e ogni tanto facciamo delle cose insieme. Frequentiamo un territorio comune da quando è nato Andrea. Ci occupiamo di didattica, progetti per la scuola come Nidi di note e Note elementari».
Fate pure i professori?
«Diciamo che si organizzano concerti utili a finanziare la musica nelle scuole. Ho chiamato e chiamo diversi amici, ospiti. Oltre alla Vanoni, Gaetano Curreri degli Stadio, Niccolò Fabi ed Eugenio Finardi. Si prestano a titolo gratuito».
Il figlio vorrà essere come papà...
«Studia batteria ma vorrebbe fare pure lo scienziato, gli piace scoprire. È appassionato a tutto quello che è intorno allo spettacolo, viene a teatro e sta dietro ai tecnici, per guardare le consolle, le luci di scena».
Arte e famiglia: dure da far coesistere?
«È importante la qualità del tempo che passi a casa, non solo la quantità. Ci sono persone che sono in famiglia tutti i giorni e non dicono una parola. Conta quello che si porta a casa. Se sono in viaggio mi arricchisco, torno e quello che offro sono le esperienze fatte, le condivido. Poi ci sono i viaggi insieme, nostro figlio ha visto molti Paesi del mondo».
Quando vi trovate sarà sempre festa.
«A casa facciamo molte cose, si ascolta sempre musica, si leggono libri. Non so se stando sempre lì a disposizione avrei avuto questa abbondanza da condividere».
Duecento concerti l’anno, forse ha l’horror vacui?
«Chissà, forse sì. Ho soprattutto paura della noia. C’è un sogno ricorrente che faccio, quello di essere chiuso come in una sorta di gabbia, di piccolo spazio in cui non mi posso muovere. Questo mi fa pensare proprio alla noia, che non mi appartiene. Non dormo mai di giorno, anche se ho passato una notte in bianco. La giornata si usa per fare».
Ha un rapporto un po’ compulsivo con il «lavoro».
«Direi che mi piace creare dal nulla. Creare una casa, l’idea di costruire mi appaga. Una cosa straordinaria è avere una parete bianca libera dove inventare, mettere un quadro, disegnare. Poi realizzare una partitura da zero».
Mai andato da uno strizzacervelli?
«Freud diceva che l’artista è uno dei pochi che non si possono psicanalizzare. L’idea della creazione è di per sé una operazione di psicanalisi. Anche se non si può generalizzare, l’artista è uno che trova l’equilibrio con se stesso attraverso lo strumento creativo che possiede».
E magari Dio è in un assolo...
«Io credo in una presenza importante che appunto chiamerei Dio. E la musica, da questo punto di vista, è la quintessenza dell’esistenza di qualche cosa. A volte fai un gesto che pensavi di non saper fare, un gesto che secondo me arriva da un’ispirazione quasi divina. L’artista è il collegamento tra la terra e il cielo».
Quando non prega in musica, Fresu che fa?
«Amo molto la natura, mi piace passeggiare, anche solo guardare. Quando sono da me, nell’isola, sono già contento così. Mi occupo della mia casa, di quello che c’è, degli animali, ho dei cavalli e degli asini. Mi appassiona coltivare le case».
Lei è un casalingo insospettabile...
«Do molto senso alla casa, mi piace portare oggetti dal mondo per cui le stanze diventano piene di cose e mia moglie mi tira le orecchie. A casa mi piace molto leggere, amo la letteratura latinoamericana, da Marquez all’Allende, poi Neruda e Saramago».
I piaceri dei sensi?
«Gusto, il mio piatto preferito è la minestra bollente con il brodo di carne che mi faceva e continua a farmi anche in agosto mia madre. La vista, mi piacerebbe avere una casa di fronte al mare, per tanto tempo un nemico, non so ancora nuotare».
Gran finale con una cosa «inconfessabile»...
«Una volta a Bombay in India sono uscito dall’area-concerto e per rientrare e salire sul palco, non sapendo la lingua, ho dovuto pagare il biglietto».