Corriere della Sera, 5 febbraio 2019
Tutti odiano Tom Brady
L’America ama quelli straordinariamente bravi a fare qualcosa, e ama i vincitori. È bizzarro dunque che esista un sempre più massiccio oceano di antipatia che si riversa su Tom Brady, quarterback dei New England Patriots che ha appena vinto (13-3 contro la vittima sacrificale Los Angeles Rams) la sua sesta finale del campionato, il mitologico Superbowl.
Questa volta poi Brady aveva vinto prima ancora di cominciare: un giornalista che l’aveva definito, alla vigilia della finale, «un noto imbroglione» era stato licenziato in tronco (si riferiva a una squalifica per quattro giornate a causa di una partita disputata con palloni più sgonfi di quelli regolamentari per ottenere un vantaggio).
Chi vince porta a casa un anello commemorativo, ora Brady ha finito le dita della mano e deve passare per forza all’altra. Però tutti i media già alla vigilia registravano le clamorose proporzioni del tifo nazionale (tutti contro a parte ovviamente i fans dei Patriots).
Bello, mascella squadrata, non simpaticissimo, non modestissimo essendo conscio della sua bravura mostruosa, sposato con la modella Gisele Bündchen, Brady è una specie di calamita per l’antipatia delle masse anche perché ormai il football non è solamente uno sport. È una questione politica: dopo la protesta di tanti atleti afroamericani (si inginocchiavano invece di alzarsi in piedi durante l’inno in segno di protesta contro il razzismo) Trump è entrato a gamba tesa: sapendo che la maggior parte dei tifosi – il football è soprattutto uno sport popolare al Sud e tra i maschi bianchi – è repubblicana ha attaccato il giocatore-simbolo della protesta, Colin Kaepernick, finito senza squadra. «Figli di p…», ha definito i giocatori che protestavano, senza che presidenti e coach muovessero un dito. Il basket Nba è solidamente democratico e il simbolo è Lebron James che apre scuole per ragazzi dei ghetti, il football ha come simbolo il vincitore seriale Brady, regolarmente elogiato da Trump (attualmente impopolare, solo il 38% approva il suo operato). «Contagio» da parte di un presidente impopolare? Forse. Scarso brio nelle apparizioni mediatiche? Anche. Brady 19 anni fa dopo essere stato ingaggiato dai Patriots disse al presidente che si trattava della «miglior decisione che abbia mai preso nella sua vita», ma non riesce mai a simulare quel minimo di artificiale modestia che rende più sopportabili i vincenti sempre e comunque (perfino Michael Jordan era bravo a fingere che le vittorie dei Bulls fossero un lavoro di squadra).
Brady compie 42 anni a agosto e vuole giocare fino a 45. Ha cancellato i record degli altri quarterback storici, è difficile negare che sia il più grande di ogni tempo (il calcio almeno ha i duelli Pelè-Maradona e Messi-Ronaldo), vende libri sulla sua dieta (al risveglio comincia a ingurgitare beveroni vegetali e continua attraverso la giornata a nutrirsi di cibi organici: niente zucchero raffinato, niente farina bianca, niente glutammato o altri esaltatori di sapidità, tanto olio d’oliva ma solo crudo mai cotto, sale rosa dell’Himalaya, niente caffé, niente caffeina, niente latticini, dieta «antiinfiammatoria» studiata dal suo preparatore Alex Guerrero in passato finito sotto inchiesta per esercizio non autorizzato della professione medica).
Ma qualcosa è cambiato nell’umore nazionale. Le tasse ai ricchi, una volta argomento letale per un politico dopo che Reagan le aveva abbassate a tutti in modo massiccio, ora tornano d’attualità e la neoeletta deputata Alexandria Ocasio-Cortez rilancia la tassazione del 70% sui redditi oltre i 10 milioni di dollari e invece di finire seppellita di fischi vede vincere, nei sondaggi, la sua idea. Howard Schulz, papà di Starbucks, si candida alla presidenza e finisce nell’angolo, criticato come miliardario che vuole proteggere sé e gli altri miliardari dalla tassazione. In questo clima, è normale che Brady risulti un po’ fuori sincrono. Con buona parte dell’America a «gufare» contro di lui, anche tra coloro che non si interessano di football.