La Stampa, 5 febbraio 2019
Intervista a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli
Quando il suo babbo Andrea Bocelli è venuto a Sanremo per la prima volta, nel 1994, e ha vinto tra i giovani, lui non era ancora nato. Quando ci è tornato nel ’95, per la prima volta tra i Big, è nato Amos, suo fratello maggiore. Matteo Bocelli è del 1997, e ovviamente di Sanremo ha sentito parlare «spesso» in casa, come racconta in questa intervista, la prima che affronta da solo. «Devo essere sincero - dice - sono parecchio nervoso a essere al Festival, dove tutto è iniziato per il mio babbo. Alle prove mi ha raccontato tante cose, dei suoi Festival. Sarà un’esperienza più unica che rara».
A 21 anni il primo Sanremo: era nel suo destino?
«A sette anni ho cominciato a studiare pianoforte, su consiglio di mio padre. Mi diceva: vedi se ti piace e se ti va di andare avanti. All’inizio è stata dura, magari da piccolo preferisci dare calci a un pallone, ma poi mi sono appassionato. E ora lo ringrazio: se non avessi studiato musica oggi ne sentirei la mancanza».
E il canto?
«Anche a cantare ho iniziato da bambino, di fronte alla mamma. Solo a 14 anni trovai il coraggio di fare ascoltare una canzone al babbo. Lui disse solo: bravo. Senza esagerare. Voleva che fosse una scelta mia, non voleva condizionarmi o forse già temeva che cosa avrebbero detto del “figlio di Bocelli che canta”. Preferiva diventassi pianista».
Come l’ha convinto?
«Ho registrato delle canzoni. La prima fu Impossible, un pezzo R&B con cui James Arthur ha vinto X Factor in Gran Bretagna. Mi ascoltò David Foster, il grande produttore, e fu lui a volermi sul palcoscenico della Celebrity Fight Night, l’evento benefico inventato da Muhammad Ali che il babbo ha portato in Italia. Da solo, senza amplificazione, cantai l’aria di Tosti Non t’amo più. Da quel giorno mi sbloccai».
Ed ecco «Fall on Me», il duetto con babbo che l’ha portata al numero 1 in America.
«Veramente c’è arrivato Andrea Bocelli, non Matteo, al numero 1».
È pur sempre un duetto.
«Sì, da qualche anno la Sugar voleva un duetto. Ci sono state varie proposte. Questa, di due ragazzi americani che si fanno chiamare A Great Big World, mi è piaciuta subito. È moderna, attuale, diversa dalle altre del babbo, si rivolge a un pubblico giovane. Ci ho riflettuto, ma in realtà non avevo dubbi. Sapevo che mi avrebbe proiettato in un mondo nuovo».
Ed è stato così.
«Fin dal primo momento, quando abbiamo registrato con il produttore Bob Ezrin, è stato emozionante. Ha lavorato con i Pink Floyd, non so se mi spiego. È stato tutto molto bello, quella canzone mi ha portato al Madison Square Garden, eppure so già che Sanremo sarà speciale, indimenticabile».
«Fall on Me» racconta un rapporto padre/figlio.
«Sì, rispecchia molto bene la nostra storia, specialmente nella versione italiana: “È un viaggio infinito, sorriderò se nel tempo che fugge mi porti con te”. È un testo molto intenso e profondo, spero di riuscire a trasmetterlo».
Suo fratello Amos non canta?
«Suona il pianoforte, ma studia Ingegneria Aeronautica, è a due esami dalla laurea e quest’estate farà una internship in Olanda con l’Esa. Lavorerà a una navicella che sarà lanciata nello spazio. È entusiasta».
Con che musica è cresciuto?
«Opera e pop, Sinatra e Puccini. Liszt, Rachmaninov e Chopin, ma anche Ed Sheeran. È così che vorrei impostare la mia carriera, se vogliamo chiamarla così»».
Il duetto tra il babbo e Sheeran è un’idea sua?
«È un’idea di Ed, ma quando si è cominciato a parlarne, ho detto: babbo, lo devi fare assolutamente. Sheeran è un grande, lo ammiro tantissimo».